DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

sabato 28 aprile 2018

L' IMPERO AMERICANO E LA SFIDA CINESE - Carta inedita e commento da LimesOnLine



Un’anticipazione dal prossimo numero e dal prossimo Festival di Limes nell’inedito a colori della settimana.
La carta inedita della settimana è un’anticipazione dal prossimo numero e dal V Festival di Limes, entrambi intitolati “Lo stato del mondo”.

La mappa rappresenta la sfida portata dalla Cina al primato mondiale degli Stati Uniti.

Incartografabile e incartografato perché le sue ambizioni coincidono con l’orbe terracqueo, l’impero americano è meglio rappresentato nei confini delle aree di responsabilità delle sue flotte. Le quali, dominando i mari, i colli di bottiglia strategici e le connesse vie di comunicazione su cui viaggia la stragrande maggioranza della ricchezza mondiale, assicurano il dominio di Washington sul pianeta.

Gli Stati Uniti impiegano tale posizione di vantaggio per esercitare pressione sul proprio principale rivale, la Cina, mediante un arco di contenimento che dal Giappone si svolge fino all’India passando per il cruciale stretto di Malacca. Assieme all’Australia, Tokyo e Delhi si allineano a Washington nel quadrilatero (quad) volto a ostacolare l’ascesa di Pechino.

A questi disegni, la Repubblica Popolare ha risposto con un progetto diretto a ovest, le nuove vie della seta. Benché ideato per trovare sbocchi al proprio surplus produttivo e bilanciare lo squilibrio economico delle province interne, raffigurato su mappa il piano cinese rivela subito un sostrato geopolitico: avvolgere l’Eurasia, massa bicontinentale decisiva per il controllo del pianeta, di rotte. Attraverso cui esportare, oltre alle proprie merci, la propria potenza.

Non è un caso che lungo queste vie della seta Pechino non escluda di realizzare basi militari.

Le ambizioni dell’Impero del Centro sono state agevolate dall’intesa con Mosca, frutto dell’indurimento della frontiera tra Russia e Nato successivo alla crisi ucraina del 2014.

I temi di questa carta sono al centro del prossimo numero e del Festival di Limes (Genova, 4-6 maggio).

Testo di Federico Petroni.
Carta inedita di Laura Canali.


lunedì 16 aprile 2018

L' ATTACCO IN SIRIA - TRUMP SMENTISCE MACRON E DICHIARA CHE GLI USA SI DISIMPEGNERANNO DALLA SIRIA - Articolo sul raid di Limes On Line


La notizia di lunedì è che Trump smentisce le dichiarazioni di Macron di domenica.
Macron aveva dichiarato di essere riuscito a convincere gli USA a non disimpegnarsi dalla Siria (clicca QUI) ma stamane Trump ha confermato l' intenzione di andarsene dalla Siria malgrado i raid e chiedendo maggior impegno dagli alleati (clicca QUI).
C' è un po' di confusione.
Sotto riproduciamo un breve articolo di Limes On Line.


L’ATTACCO IN SIRIA
di Nicolò Locatelli

Ora che anche l’annunciatissimo attacco mirato (parola di Trump) occidentale ad Assad si è consumato, gli eventi di questa settimana permettono di fare qualche considerazione su Siria e dintorni.
Innanzitutto, il casus belli: come per gli analoghi episodi del passato, ci sono validi motivi per ritenere che il regime abbia davvero sferrato un attacco con armi chimiche a Duma: spezzare il morale degli ultimi ribelli ivi rimasti, mostrarsi talmente superiore militarmente da sfidare la condanna occidentale. Così come per ritenere il contrario: che motivo c’era di provocare una reazione statunitense in una fase favorevole della guerra? Non bastavano le armi “convenzionali”?
Come in passato sarà difficile se non impossibile stabilire con certezza cosa è accaduto. Infine, come in passato non conterà stabilire cosa è accaduto ma come gli eventi – o presunti tali – vengono sfruttati dalle parti in campo.
Nella sostanza, il bombardamento di venerdì sera non si è discostato molto da quello del 7 aprile 2017. È aumentato il numero di bersagli colpiti (da uno a tre) e soprattutto gli Stati Uniti non hanno agito da soli: Francia e Regno Unito hanno partecipato all’attacco.
Non è variato l’obiettivo cosmetico del raid. Washington non vede la permanenza di Assad al potere come una minaccia ai suoi interessi nazionali e non ha coltivato alternative credibili all’attuale regime. La Siria agli Usa serve per distrarre, tenere sotto controllo e possibilmente dividere Russia, Iran e Turchia. L’attacco non puntava a rovesciare le sorti del conflitto ma a permettere a Donald Trump – e in minor misura a Theresa May ed Emmanuel Macron – di mantenere la parola data. Per quanto sia sempre più difficile comprendere quale sia la sua parola: basti pensare ai ripensamenti sul tempismo dell’attacco o a quelli sulla Trans-Pacific Partnership. Bombardare di venerdì sera gli dovrebbe inoltre consentire ancora una volta di dominare il ciclo delle notizie nel fine settimana, distraendo il proprio elettorato dai problemi del suo avvocato e dalle rivelazioni dell’ex direttore dell’Fbi..
La partecipazione francese al bombardamento conferma l’asse franco-statunitense e macron-trumpiano, interessante non tanto nell’ex mandato transalpino in Medio Oriente quanto nell’Europa post-Brexit, in funzione anti-tedesca.
L’instabilità politica italiana non è stata decisiva, né poteva esserlo.


venerdì 13 aprile 2018

SIRIA - LA CINA MUOVE LE NAVI, ALLEANZA IN MARE CON MOSCA - Un articolo del Messaggero.


Il Messaggero di Roma ha pubblicato un interessante articolo che riproduciamo per intero.
 Sintesi: LA CINA MUOVE LE NAVI PER SCHIERARSI CON PUTIN: PECHINO E’ PRONTA A INTERVENIRE IN CASO DI OFFENSIVA AMERICANA - XI JINPING HA INVIATO A TARTUS UNA PORTAEREI, UNA FREGATA, MILLE SOLDATI E DUE CACCIATORPEDINIERE - NEI GIORNI SCORSI ALCUNI DRONI STATUNITENSI SONO STATI MANDATI IN TILT DA CYBERATTACCHI RUSSI MENTRE STAVANO SORVOLANDO LA SIRIA

Siria, anche la Cina muove le navi alleanza in mare con Mosca

di Cristina Mangani




L'ordine è arrivato da Pechino, e non stupisce affatto: in caso di attacco, le navi cinesi presenti nel Mediterraneo dovranno appoggiare la Russia. Che la guerra scoppi o meno, quello che conta sono gli schieramenti, il deterrente più forte per allentare la tensione nelle acque antistanti la Siria. Nel risiko che si sta giocando tra super potenze, il piccolo stato mediorientale finisce accerchiato, con le navi che si stanno riposizionando. Dalla base di Tartus, roccaforte russa, hanno preso il largo le portaerei, che hanno cominciato a fare esercitazioni a fuoco in mezzo al mare.

Tutte le rampe antimissile delle 4 basi aeree, compresa quella iraniana alle porte di Damasco, di Jabal Ash Sharqi, sono state armate. Mentre nel pomeriggio una lanciamissili, una fregata, due cacciatorpediniere e una nave di rifornimento cinesi si sono dirette sempre in zona Tartus, con a bordo mille marines.

LE TASK FORCE
Oltre alla task force russa, dunque, composta da quindici navi da guerra di stazza nel Mediterraneo, tra cui due fregate, due cacciatorpedinieri lanciamissili e almeno un sottomarino classe Varshavyanka, c'è ora la 29 flotta della Marina cinese, ufficialmente in quelle acque per contrastare la pirateria. Un fatto non nuovo, visto che, proprio lo scorso anno, le due forze hanno effettuato esercitazioni congiunte nel Mar Baltico. Attualmente, comunque, l'ammiraglia russa davanti alla Siria è la fregata lanciamissili capofila della classe Admiral Grigorovich.

Nello stesso tempo, e nello stesso tratto di mare, gli americani, gli inglesi e i francesi, stanno prendendo posizione. Il Pentagono, al momento, non ha portaerei nel Mediterraneo, perché la Truman è appena salpata e non sarà in zona prima di dieci giorni.


Restano le installazioni presenti attualmente in Italia, che sono - così come ricostruisce Pietro Batacchi, direttore di Rid, la Rivista italiana difesa - Camp Ederle, a Vicenza, sede della 173/a Brigata Aerotrasportata e dell'United States Army Africa (Usaraf); Aviano, dove sono di stanza caccia F-16 dell'Usaf e dove sono stoccate pure le bombe nucleari B-61 (parte del dispositivo di deterrenza della Nato), e la Naval Support acvitiy di Napoli, sede della Sesta Flotta dell' Us Navy (che al momento ha assegnato in maniera permanente una solo unità).

«In un'ottica siriana - osserva ancora l'esperto - le strutture più importanti sono però la base di Camp Darby (Pisa) e la Naval air station di Sigonella. La prima è una delle principali basi logistiche delle Forze armate americane fuori dagli Usa e ospita milioni di munizioni e bombe-ordigni di vario tipo. È direttamente collegata al porto di Livorno attraverso un sistema di canali. La Nas Sigonella, invece, è il principale hub per le operazioni americane nel Mediterraneo».

LE FORZE SPECIALI
Inoltre, nel Nord della Siria operano forze speciali inglesi e americane: una cinquantina di uomini che si trovano in quell' area per dare supporto ai curdi e alle forze ribelli che combattono Assad. Il loro ruolo potrebbe essere quello dei segnalatori. Anche se, il 30 marzo scorso, due di questi soldati super addestrati, John Dumbar e Mad Torrac, sono morti saltando per aria su una mina a Manbij.


Come si muoveranno, dunque, le varie forze in campo? A giudicare dagli abbracci tra delegati Usa e russi, ma anche dalla confusione dei tweet lanciati dal presidente Trump, la situazione sembra molto più sotto controllo di qualche giorno fa. I rischi di una simile guerra sono troppo elevati. Soprattutto, nel caso in cui per dare una lezione al presidente siriano, gli Usa finissero con il colpire casualmente un soldato di Putin.

Nei giorni scorsi, poi, secondo il racconto di quattro funzionari americani alla Nbc News, alcuni droni statunitensi sono stati mandati in tilt da attacchi cyber russi mentre stavano sorvolando la Siria. Piccoli droni, non i grandi Reaper e Predator che hanno decimato la catena di comando del Califfato, colpiti da sabotaggi da remoto dopo che si erano sollevati in volo per aggirarsi intorno a Ghouta, alla ricerca di tracce degli attacchi chimici.

  

giovedì 12 aprile 2018

SIRIA - L' ERRORE AMERICANO IN SIRIA - Un articolo di Lucio Caracciolo



Dalle velleità necon ai tweet di Trump, passando per la linea rossa di Obama: amici e nemici ormai hanno capito che degli Usa in Medio Oriente non ci si può fidare.

Ogni giorno che passa in Siria, la vittoria di Bashar al-Assad diventa più concreta. E palese appare la sconfitta dei ribelli sostenuti dall’Arabia Saudita, insieme agli Stati Uniti e alle principali potenze atlantiche.

L’ennesima strage di civili a Duma, nella Ghuta orientale, che secondo fonti ribelli e occidentali sarebbe da attribuire all’impiego di gas letali da parte del regime, sancisce la resa dei miliziani filosauditi di Jaish al-Islam e rafforza Damasco nella convinzione di poter completare il controllo sulle regioni strategiche del paese, grazie al supporto della strana alleanza Teheran-Mosca-Ankara. Ovvero tra due potenze – Iran e Russia – che Washington bolla nemiche e una – la Turchia – che appartiene alla sua (e nostra) alleanza, la Nato. Ma non per questo si accoda agli Stati Uniti. Anzi.


Questo paradossale triangolo è frutto dell’incredibile sequenza di errori, esitazioni e virate tattiche compiute dagli Stati Uniti in Medio Oriente dopo la fine della guerra fredda. In particolare, con la liquidazione di Saddam che ha consegnato l’Iraq all’influenza iraniana, favorendo così un asse Beirut (Libano)-Herat (Afghanistan occidentale) via Damasco e Bagdad, centrato su Teheran.

Il rapsodico appoggio occidentale ai vari gruppi ribelli – in parte neo- o veteroqaidisti, in altra parte solo velleitari, comunque formidabili nell’annullarsi reciprocamente – ha convinto i nemici ma soprattutto gli amici di Washington che degli Stati Uniti non c’è da fidarsi. Non fosse che per l’incoerenza fra promesse e inazioni, retorica militarista e disimpegno militare. Ne sanno qualcosa i curdi siriani, chissà perché convinti che gli americani potessero scendere in guerra contro i turchi, formalmente loro alleati, per lasciar nascere un Kurdistan siriano a ridosso delle aree anatoliche in cui operano i confratelli del Pkk, nemici giurati di Ankara.

Le oscillazioni della politica americana in Siria e nella regione si debbono ai dissidi fra le fazioni che nell’establishment americano decidono – più spesso non decidono – la geopolitica a stelle e strisce. Vi contribuiscono poi l’erraticità dei presidenti, volti visibili e rappresentativi dell’America nel mondo. Dalle velleità rivoluzionarie di Bush figlio, che nella versione neocon evocava il “Nuovo Medio Oriente” liberale, democratico, quindi filo-americano; al mezzo disimpegno di Obama, frenato dai militari e passato alla storia per il bluff della “linea rossa” che avrebbe indotto la superpotenza a liquidare al-Assad nel caso mettesse mano al gas nervino; fino al tragicomico festival dei tweet trumpiani.

Nel giro di pochi giorni, l’attuale inquilino della Casa Bianca ha prima fatto sapere che avrebbe riportato a casa al più presto le sue scarse truppe (duemila uomini circa) dato che ormai lo Stato Islamico era defunto, poi ha lasciato filtrare che a malincuore ci aveva ripensato perché avrebbe consegnato la Siria al pur improbabile asse Iran-Russia-Turchia. Infine – ma attendiamoci ulteriori puntate – ieri si è scagliato contro “l’animale” al-Assad assicurando che pagherà un “forte prezzo” per il massacro di Douma. Vedremo. Certo che un nuovo bombardamento punitivo contro installazioni del regime non potrebbe alterare gli equilibri sul terreno.

La guerra non è finita. Si apre una nuova fase, in cui i provvisori vincitori dovranno spartirsi il bottino, demarcare le linee di influenza, valutare la tenuta della loro intesa. Non è scontato che accada. La storia informa che fra Turchia, Russia e Iran, potenze imperiali, le dispute hanno di norma prevalso sulle intese. Allo stesso tempo, non si vede come gli Stati Uniti possano decidere di rientrare a pieno regime in Medio Oriente, dopo averne declassato il valore geostrategico ed economico.

A meno che le ambizioni della Cina, sempre più attiva e influente nella regione, non inducano una revisione strategica a Washington. Quanto a noi europei, coltiviamo una certezza: altre masse di siriani disperati busseranno via Turchia alla nostra porta. Deciderà il sultano se riaprire o meno la rotta balcanica, peraltro mai ermeticamente chiusa. E se no, in cambio di cosa.




mercoledì 11 aprile 2018

SPARTIZIONE DELLA SIRIA - SEMBRA IMMINENTE ATTACCO OCCIDENTALE MA USA E FRANCIA NON POSSONO RECUPERARE IL TERRENO PERDUTO - Un articolo di LimesOnLine


Limes on Line 11/4/18
Damasco. In Siria, a Stati Uniti e Francia non riuscirà alcuna remuntada contro Russia e Iran. Nel migliore dei casi, da un punto di vista statunitense e francese, gli eventuali attacchi contro obiettivi governativi siriani, iraniani e russi sortiranno forse l’effetto di spingere Mosca e Teheran a concedere, loro malgrado, quote minime nella spartizione del paese dilaniato dal conflitto.

Nel caso peggiore, ma anche più probabile, possibili raid aerei francesi e americani (forse anche britannici) nella Siria occidentale serviranno soltanto a mostrarsi “forti” e “risoluti” agli occhi di un’opinione pubblica “scioccata dalle immagini” del presunto attacco chimico.

La Russia e l’Iran sono i padroni della Siria occidentale e costiera. La Turchia e la Giordania – tramite il tavolo di Astana – partecipano al banchetto ma non hanno le credenziali per guidare il processo di spartizione. Gli Stati Uniti, dal canto loro, hanno una presenza nell’Est e non hanno nessun reale appetito di affacciarsi a ovest dell’Eufrate. La Francia non c’è, se non politicamente.

Ecco perché la nuova “crisi chimica” sembra indicare la volontà di Washington e Parigi di esercitare pressioni su Russia e Iran usando la Siria come pretesto allo scopo di ottenere vantaggi su altri teatri, geograficamente anche lontani da Damasco e dalla martoriata Duma.

Di certo, gli equilibri del conflitto siriano rimarranno pressoché invariati, con Mosca e Teheran ben saldi al comando della guerra e della pace.

Intanto la Siria governativa, russa e iraniana si è già preparata, come da copione, a eventuali attacchi occidentali: le basi militari della Siria occidentale e possibili obiettivi sono in massima allerta e il sistema missilistico è attivo, soprattutto quello attorno al palazzo presidenziale. Gran parte dei caccia Mig e Sukhoi sono stati trasferiti nella base russa di Hmeimim, considerata meno esposta a raid statunitensi e francesi.

Anche perché i possibili obiettivi di attacchi occidentali si concentrano attorno a Homs e a Damasco, dove l’Iran da tempo ha dimostrato di voler espandere e radicare la propria presenza, vicino a Israele e al Libano di Hezbollah. Le basi di Shayrat (colpita un anno fa dai Tomahawk americani) e di Tayfur (anche nota come Tiyas o T4, colpita a febbraio e domenica notte scorsa in raid attribuiti a Israele) sono nel mirino.

Assieme alle basi vicino la capitale, quella di Kiswa – tra la capitale e il Golan in mano a Israele – è indicata come un’altra postazione iraniana. Così come una sezione dell’aeroporto internazionale di Damasco. Altri luoghi chiave sono la base di Dumayr a nord della città e quella di Mezze, nei pressi del centro moderno.

Se e quando Usa e Francia colpiranno, almeno metà dell’opinione pubblica mondiale si schiererà con il governo siriano, la Russia e l’Iran perché “vittime dell’aggressione imperialista” statunitense e dei loro alleati. Soci di “dittatori” come il futuro re saudita Muhamed bin Salman (attualmente a Parigi per incontrare il presidente francese Macron, dopo esser stato dal collega Trump) e “in combutta con i sionisti”.

I civili siriani continueranno a subire le violenze. In particolare quelli in aree ancora fuori dal controllo governativo ed esposti quotidianamente a bombardamenti con armi convenzionali. La guerra proseguirà, la spartizione della Siria continuerà. E si rafforzerà la pax russo-iraniana.

martedì 10 aprile 2018

La vittoria di Orbán approfondirà la faglia con l’Ue - Un articolo di Limes On Line -


La netta vittoria alle legislative del premier uscente dell’Ungheria, Viktor Orbán, approfondirà la faglia fra Budapest e l’Europa occidentale. E conferirà maggior peso al leader magiaro fra i paesi del blocco orientale dell’Ue determinati a brandire il nazionalismo (soprattutto in senso etnico) come leva del consenso.
Conquistati due terzi dei seggi al parlamento (133/199, frutto del 49% circa dei suffragi), il suo partito Fidesz ha ora i numeri per approvare in solitaria modifiche alla Costituzione. E a sentire i temi evocati in campagna elettorale i suoi principali bersagli saranno il magnate americano George Soros, i migranti e l’Unione Europea stessa. Proseguendo in misure come quelle contro le ong o nel muro contro muro con Bruxelles sull’accoglienza dei rifugiati. Filo rosso: offrirsi come scudo nazionalista di fronte alle minacce percepite da un orgoglioso paese ripiegato su stesso dopo l’implosione dell’impero austro-ungarico e il dominio comunista.
Il crescente consenso del primo ministro ricorda che il suo operato non va giudicato – come troppo spesso si tende a fare – come mera iniziativa personale. Orbán ha successo perché è espressione di istanze influenti nella società magiara. In altri termini, non sarebbe una caduta di Orbán a modificare la condotta in Europa dell’Ungheria.
Ne ha scritto su Limes Stefano Bottoni:
Orbán è mosso dalla consapevolezza che il suo e altri paesi della regione siano finalmente (ri)entrati a far parte dell’Occidente e abbiano oggi il diritto di parlare «da occidentali» senza prendere lezioni da nessuno.
Comunque si valuti l’offerta ideologica tradizionalista e apertamente «sovranista» del premier ungherese, bisogna accettare di vivere in un’epoca multipolare, sia nel campo della diplomazia globale sia nel campo dei rapporti di forza all’interno dell’Unione Europea. Le élite centro ed est-europee, Orbán in testa, hanno acquisito un bagaglio di esperienza e un patrimonio di conoscenza dei meccanismi europei dall’interno che le rende molto meno docili di un decennio fa.
Sbaglia chi crede oggi di poter parlare a Budapest, Varsavia o Praga con la stessa supponenza utilizzata con successo in passato. L’approccio adottato dalle autorità di Bruxelles nei confronti della «rivolta» pacifica di Orbán si è rivelato finora controproducente. Chi minaccia sanzioni in nome dei «valori europei», senza avviare una discussione di fondo sul futuro dell’Europa né trovare il coraggio di punire davvero chi rema contro, legittima involontariamente la critica orbaniana all’establishment europeo.

lunedì 9 aprile 2018

IL M5S E LA RAPPRESENTANZA DEGLI INTERESSI DEL SUD - Un articolo di politica economica di Federico Fubini sul Corriere analizza la spaccatura in corso nella Penisola e propone fiscalità di vantaggio al Sud (come il Portogallo con i pensionati).



Mantenendo alta la nostra attenzione sulle fratture e faglie geopolitiche che si stanno  evidenziando nella penisola italiana abbiamo incontrato un articolo di Federico Fubini sul Corriere che analizza dal punto di vista politico ed economico la frattura Nord-Sud che si è manifestata nelle recenti elezioni. 
In particolare il M5S ha assunto di fatto la rappresentanza  politica del Sud dove ha raccolto una messe di voti e deve rispondere a quell' elettorato.
L' articolo si conclude con ipotesi di detassazione e fiscalità di vantaggio al Sud per  famiglie e pensionati (come in Portogallo).
Ecco l' articolo:



Sud, il dilemma del Movimento

I 5 Stelle e l’assenza di una ricetta per non deludere gli elettori del Sud

Forse non era mai successo prima che il Mezzogiorno riuscisse a contare tanto nel governo del nostro Paese. Possono infatti restare dubbi su come esso verrà formato, ma non sul fatto che in qualunque maggioranza il Movimento 5 Stelle sarà determinante perché ha quasi il doppio dei voti del secondo e del terzo partito.
Se quello oggi è il primo gruppo in Parlamento, deve ringraziare il territorio sotto Roma che da solo formerebbe il quinto Stato più grande dell’area euro. 

Senza il Mezzogiorno, le elezioni avrebbero deluso M5S.
Rispetto alle legislative del 2013 il Movimento ha perso voti in Piemonte, Veneto e Liguria, ed è crollato in Friuli-Venezia Giulia.
Al Nord nel complesso ha fatto fatica ed è riuscito a prevalere solo grazie a un balzo dal 26% al 47% nel Mezzogiorno.

Il gruppo sociale nel quale si è imposto più nettamente non sono i disoccupati, ma quello meno esposto ai rigori della globalizzazione: gli statali fra i quali, stima Ipsos, il 40% ha preferito la forza di Luigi Di Maio. 


Per radicarsi e consolidare il proprio ruolo come cardine del sistema politico, M5S ora dovrà dunque rispondere alle speranze di milioni di elettori in Campania, Sicilia, Calabria, Puglia o Sardegna.
La ricetta è nota: il reddito di cittadinanza, in qualunque forma dovesse realizzarsi. Ma per capire se un’idea del genere abbia una possibilità di fare la differenza, è il caso di ricordare quale sia la situazione nell’ area di venti milioni di abitanti che oggi chiede un governo nel proprio interesse.


Il Mezzogiorno sta vivendo una ripresa, un po’ più lenta rispetto al resto del Paese, dove a sua volta è più lenta rispetto al resto d’Europa. Vanta alcuni distretti competitivi, segnala Intesa Sanpaolo, come la meccatronica e l’agroalimentare in Puglia o la mozzarella di bufala campana. Ma niente di tutto questo cambia il quadro di fondo: gli anni dell’euro al Sud hanno coinciso con una catastrofe economica con pochi paragoni nella storia europea.
Dall’inizio del secolo il Meridione è rimasto indietro rapidamente: in termini di reddito lordo, ha perso un terzo sulla media dell’Unione europea, il 30% sulla Germania, il 27% sull’area euro e circa il 40% sulla Spagna; l’arretramento sul centro-nord dell’Italia è stato di oltre dieci punti, persino sulla Grecia di cinque (i dati sono basati su stime della Svimez).


In tutta Europa solamente in Campania, Calabria e Sicilia metà della popolazione o oltre viene considerata da Eurostat a rischio di povertà e di esclusione sociale.
La stessa agenzia europea mostra che, stimando il reddito per abitante in proporzione al costo della vita, il Mezzogiorno ormai viaggia al livello della Lettonia, più indietro della Lituania e dell’Ungheria, quando vent’anni fa era molto più avanti. 

Nel 2015 circa quattro abitanti del Sud su dieci non avevano mai usato Internet, sempre secondo Eurostat, valori registrati solo in una singola regione greca e in parti della Romania.

Criticare e ancor meno deridere non avrebbe senso. Per motivi che hanno poco a che fare con Bruxelles o Francoforte, l’esperienza del Mezzogiorno nell’euro finora è stata un drammatico fallimento ma adesso il tempo stringe: dall’inizio del secolo quest’area ha visto emigrare un decimo dei suoi abitanti, i più dinamici e istruiti. E provateci voi a vendere una casa, quando tanta gente vuole andarsene. 

Al Sud milioni di famiglie hanno profuso i loro risparmi in immobili che oggi hanno un valore di mercato residuale. 

Di Maio probabilmente si rende conto che nessun tipo di reddito di cittadinanza basta a correggere un quadro del genere e a preservare la fiducia riposta in lui dagli elettori. Se non vuole che la speranza si trasformi presto in delusione e la forza dei 5 Stelle si riveli effimera, deve pensare a qualcos’altro. 

Per esempio può guardare ai contratti di lavoro, che in Italia sono ancora definiti a livello nazionale in circa l’80% dei casi. In teoria questa centralizzazione nata con il fascismo servirebbe a garantire una presunta uguaglianza fra lavoratori, anche se finisce soprattutto per scoraggiare l’investimento laddove l’efficienza è minore ma i costi del lavoro no. 

È anche possibile che i sindacati abbiano sempre rifiutato l’idea di allineare i salari alla minore produttività e ai costi della vita ridotti del Sud per evitare delocalizzazioni dal Nord. Ma oggi che dal Veneto o dal Piemonte si può comunque spostare un impianto in Slovacchia o in Romania, è ora che questo tabù nazionale ai danni del Mezzogiorno cada.

Si presenta poi un altro modello per il Sud: il Portogallo, che esenta dalle imposte sui redditi tutti i pensionati europei purché passino lì almeno sei mesi l’anno. Quella misura sta attirando decine di migliaia di persone verso Lisbona, rianimandone il mercato immobiliare, il lavoro nelle costruzioni, i servizi. È una concorrenza fiscale giocata sulle persone, così come l’Irlanda la pratica sulle imprese. 

Ma per l’Italia e il Mezzogiorno non è più tempo di andare per il sottile.

Geuropa divide l' Italia- 2017: carta di Laura Canali per Limes


sabato 7 aprile 2018

IL BARICENTRO DEL NORD ITALIANO SI SPOSTA VERSO EST - LA FORZA DELLA CALAMITA TEDESCA E L' IMPORTANZA DELLA LOGISTICA - Un articolo del Corriere Economia -


Da tempo Limes segnalava che il Nord dell' Italia stava subendo l' attrazione della Germania e della Mitteleuropa in generale. Infatti è entrato a far parte della "catena di valore" tedesca e la cosa ha importanti conseguenze geopolitiche (clicca QUI e vedi la cartina in fondo).
Uno studio del CGIA di Mestre sul traffico pesante conferma questo dato di fatto.

Ne scrive Dario Di Vico sul Corriere Economia del 7 aprile.
L' articolo sottolinea anche l' importanza della logistica (il Porto di Trieste ne è parte) e il "
modello più avanzato in cui manifattura e logistica tendono a integrarsi" come, aggiungiamo noi, dovrebbe avvenire con il previsto utilizzo produttivo dei Punti Franchi del Porto Franco Internazionale di Trieste.

Cliccando QUI la versione elettronica e sotto il testo dell' articolo.


La ripresa su tir svela i due Nord
Il baricentro si sposta verso Est

La forza della calamita tedesca
L’importanza della logistica e i tecnici che non si trovano sul mercato

di Dario Di Vico
Per tentare di capire meglio l’andamento e le trasformazioni dell’economia reale sono di grande utilità le tendenze del traffico dei tir in autostrada. Nei giorni scorsi la Cgia di Mestre elaborando i dati Aiscat ha confezionato uno schema che paragona i volumi tra le tratte del Nord- ovest e quelle del Nordest ed è arrivata alla conclusione che c’è una differenza del 60% a favore dell’oriente. Una dimostrazione ulteriore di come il baricentro dell’industria italiana si sia spostato: al vecchio triangolo industriale novecentesco Torino/Milano/Genova si è ormai sostituito il nuovo che possiamo perimetrare tra Varese/Bologna/Treviso. Per valutarne tutte le implicazioni vale la pena ricordare come nel Dopoguerra il Pil pro capite del Piemonte è stato superiore a quello del Veneto anche di 50 punti e che l’avvicinamento è avvenuto solo nella prima decade del 2000.
Lo spostamento dei pesi verso oriente è legato sicuramente alle differenti velocità della ripresa ma anche ad alcune trasformazioni strutturali della nostra manifattura come la prevalenza delle filiere, il trend delle esportazioni ma anche quello delle importazioni di beni intermedi, lo spazio che sta conquistando l’ecommerce. La prevalenza del Nordest sul Nordovest non è quindi solo dovuta a fabbriche che vanno a pieno regime, produzione industriale e incrementi nettamente più alti (almeno 3 punti), prospettive occupazionali più sicure, ma anche a un modello più avanzato in cui manifattura e logistica tendono a integrarsi e nel quale conta sempre di più la calamita rappresentata dal cosiddetto «sistema tedesco allargato» e dalle catene internazionali di fornitura.
Nel gennaio-marzo ‘18 il traffico dei tir sull’autostrada Udine-Tarvisio è cresciuto del 9% rispetto allo stesso periodo del ‘17, sulla Venezia-Belluno si registra +8%, sulla Bologna-Padova +6%. E numeri analoghi, attorno all’8% in più, sono segnalati al Brennero. In generale sulla A4 in direzione Trieste sembra essere tornati al periodo precrisi e agli anni prima dell’inaugurazione del Passante di Mestre, con il trasporto su gomma che grazie alla sua struttura molecolare è capace di servire meglio un’economia centrata sull’interazione tra case madri e fornitori, tra piattaforme logistiche e consumatori.
Sono sufficienti queste tendenze per parlare di due Nord? E utilizzando i dati del 4 marzo si può tentare di leggere economia e politica assieme? Per rispondere bisogna abbracciare una visione dello sviluppo economico non lineare, il Pil non si spalma omogeneamente neanche nel ricco Nord. Sicuramente il Piemonte, pur presentando differenze al suo interno — tra Torino e il Cuneese ad esempio — vede addensarsi le maggiori difficoltà nella fascia che da Biella scende verso il Tirreno. Non è poi un caso che alcune delle più acute crisi aziendali (Embraco, Italiaonline, Comdata e Comital) riguardino proprio questa regione. Ma soffre anche l’Appennino emiliano pur nel contesto di una regione decisamente in salute così come le zone interne dell’intero Settentrione restano indietro rispetto a quelle limitrofe all’asse autostradale. Nei giorni scorsi, peraltro, è stata lanciata una nuova iniziativa che si chiama Confindustria Montagna, proprio con l’obiettivo di stimolare lo sviluppo delle terre più vicine all’arco alpino. E quanto alla politica, se la divaricazione apertura vs chiusura può servire a livello Paese per semplificare lo spostamento degli orientamenti elettorali, al livello di singolo territorio le differenze sfumano. Alle urne l’imprenditore si comporta più da cittadino comune che da operatore economico.
Emilia, Veneto e Lombardia sugli scudi dunque. I flussi delle merci parlano chiaro ma anche il mercato del lavoro spinge le persone a intensificare la mobilità. Ancor più intrigante è la convergenza degli orientamenti culturali. Il Veneto anarchico, insofferente del ruolo dello Stato, è sempre meno distante dall’Emilia di cultura cooperativa e orientata a guardare con favore alla regolazione amministrativa. La penetrazione della Lega in contesti come quello di Sassuolo a forte densità industriale, solo per fare un esempio, sta a dimostrarlo e ci fa dire che le trasformazioni del modello produttivo si accompagnano agli slittamenti culturali. In questo contesto i conflitti capitale-lavoro sono destinati a perdere di intensità, la fabbrica del «nuovo triangolo» è comunità di interessi sia nella versione veneta che in quella emiliana e gli artigiani che lavorano come fornitori non si distinguono dagli operai addetti ai sistemi. La cosa singolare, e paradossale assieme, è che i territori più vivaci sono quelli che stentano a trovare i tecnici che cercano: è il fantasma del mismatch, del mancato incontro tra domanda e offerta di lavoro che resta una dannazione in un Paese con le autostrade zeppe di tir e il 38,2% di disoccupazione giovanile.

Geuropa divide l' Italia- 2017: carta di Laura Canali per Limes