DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

venerdì 29 dicembre 2017

LE MONDE - CATALOGNA: IL RITORNO DELLE REGIONI IN EUROPA E' ORMAI IRREVERSIBILE - Un' Europa dei cittadini per dare spazio alle autonomie - Un articolo di Ulrike Guérot (Docente di studi europei di politica e democrazia all'Università del Danubio in Austria)


Il 22 dicembre Le Monde ha pubblicato un articolo della politologa tedesca Ulrike Guerot che suggerisce un' Europa dei cittadini e delle regioni autonome in luogo della sommatoria di Stati Nazione che costituisce l' attuale UE (clicca QUI).
Proponiamo sotto una nostra traduzione, non professionale, dell' articolo:


Le Monde 22/Dic/2017
CATALOGNA: " IL RITORNO DELLE REGIONI IN EUROPA E' ORMAI IRREVERSIBILE"
di Ulrike Guérot 

tre partiti indipendentisti - il JuntsxCat di Carles Puigdemont, l’ ERC di  Oriol Junqueras e L' UPC anticapitalista, tutti e tre più o meno di sinistra e "nazionalisti"-  hanno appena vinto le elezioni in Catalogna con la maggioranza assoluta dei seggi nel parlamento regionale di Barcellona.
Il governo di Mariano Rajoy si aspettava un altro risultato.
Secondo lui, le elezioni avevano lo scopo di sbloccare la situazione tra gli indipendentisti catalani, il potere a Madrid e un' Unione Europea riluttante ad assumere una funzione moderatrice.
Negli ultimi mesi l'Europa ha così assistito a scene sconcertanti: Carles Puigdemont fuggito a Bruxelles con una parte del suo governo in risposta al “commissariamento” della Catalogna dopo il referendum del 4 ottobre, con una conseguente situazione tumultuosa e caotica; lo stato spagnolo ha indetto nuove elezioni per placare gli spiriti.
Con il risultato delle elezioni del 21 dicembre, si è tornati al punto di partenza?
In nessun modo, perché il ritorno delle regioni in Europa è ora irreversibile.

La Vallonia, nella sua lotta contro l'UE sulla questione CETA, aveva già aperto la strada.
La Catalogna e la Vallonia non sono le uniche regioni che combattono contro le autorità centrali dei loro rispettivi paesi.
Anche gli scozzesi fanno parlare di se, come i sudtirolesi, i veneti e molti altri.
L'Europa è ricca di regioni con identità  e culture diverse, a volte all'interno della stessa nazione: con la Baviera che non è la Renania, come ben sappiamo.


Unire gli uomini
Ma la UE non ha spazio per le regioni diffuse. È composta da Stati membri, le cosiddette "nazioni", questo è il mantra che non si deve toccare.
Si suppone che questi stati-nazione "trasferiscano le sovranità" e le uniscano allo scopo di sviluppare politiche europee. Ultimamente sta funzionando molto male. Non è giunto dunque il momento di proporre un cambio di paradigma sulla sovranità nel sistema politico in Europa?
Per essere più precisi, non è ora di tornare alle belle parole di Jean Monnet sull' Europa: "Noi non coalizziamo gli stati, ma uniamo gli uomini"?
Prendendo questa frase da sola, l'Europa potrebbe aprire una strada diversa e risolvere la questione catalana, oggi guidata in una dicotomia ingannevole: o "rimanere spagnolo" o lasciare la Spagna, l'Europa e l'Euro. Tertium non datur.
Cosa significa unire gli uomini? Ieri, la parola d'ordine in Europa era "integrazione". La democrazia europea è quella del futuro.
Emmanuel Macron lo ha capito bene in questi due discorsi sull'Europa, ad Atene e Parigi, in cui ha evocato "sovranità europea, unità, democrazia".
Ora, è chiaro che lo stato-nazione non fa rima con la sovranità europea.
Da Jean Bodin all'austriaco Hans Kelsen, la sovranità si riferisce a un concetto individuale. I cittadini sono i veri detentori della sovranità.
Dobbiamo quindi proiettarci nell'idea di questa sovranità dei cittadini, come soggetti anche del progetto europeo che si muove verso un' Europa diversa, in cui la Catalogna potrebbe trovare il suo posto.
Secondo Cicerone, per unire gli uomini in un progetto politico, i cittadini devono essere uguali davanti alla legge.
Cittadini che accettano di essere uguali prima ancora che la legge formi una repubblica.
Si noti che la nazionalità non fa parte della definizione!
Francese o sloveno, italiano o finlandese, oppure - questo è il punto da sottolineare - savoiardo, catalano, veneto, scozzese, bavarese, tutte queste identità possono formare insieme una Repubblica europea, come immaginò Victor Hugo nel 1872: "Di sicuro, questa immensa cosa, la Repubblica europea, la realizzeremo. "

Uguaglianza davanti alla legge
Questa non è una questione di "trasferimento di competenze" da "nazioni" alla UE.
In realtà si tratta di un’ altra concezione: la nozione di "cittadini europei" è sufficiente per decidere di essere uguali davanti alla legge - da Helsinki a Salonicco via Barcellona e Dublino - invece di rimanere frammentati in quei contenitori separati che sono le leggi nazionali.
La Repubblica è l' unità normativa, mentre l'identità e la cultura sono regionali. Non c'è bisogno di una "identità europea" per costruire la Repubblica. La legge risolverà la questione.
L'unità nella diversità è stata per lungo tempo il mantra europeo: nessuna forza potrebbe impedire ai cittadini europei, indipendentemente dal loro territorio di origine, di far parte di una Repubblica europea.
Un mercato, una valuta, una democrazia dovrebbero quindi essere il progetto europeo del ventunesimo secolo.
In altre parole: un euro, un IBAN e, in definitiva, un numero di sicurezza sociale per ogni cittadino europeo.
Questo corrisponderebbe alla definizione della Repubblica secondo Cicerone.
La sfida non è la centralizzazione, ma la parlamentarizzazione totale dell'Europa, tenendo conto di un sistema bicamerale in cui le cinquanta o più regioni dell'Europa - e non le "nazioni" di oggi – come le troviamo sulle mappe medievali, potrebbero essere rappresentate all’ interno di un Senato. Insieme al Parlamento europeo, formerebbero un Congresso.
Quindi, i cittadini europei eleggerebbero il loro presidente a suffragio universale diretto.
Concluso il sistema di “controlli e contrappesi”, arriva il momento del bicameralismo, in cui la Catalogna troverebbe tutto il suo posto.
La sfida non è organizzare un "trasferimento di poteri" delle nazioni, ma proporre una separazione dei poteri.
Che è totalmente diverso dall'attuale progetto centralizzato.
Non siamo pessimisti, siamo quasi arrivati: il presidente Emmanuel Macron avrebbe dovuto ridenominare il suo movimento "La Repubblica europea in corso" nella prospettiva delle elezioni europee del 2019.
Ricordiamo, infine, le parole che lo storico tedesco Theodore Schieder pronunciò nel 1963: "Una nazione è soprattutto un'unità di cittadini e non di lingue, etnie o culture”.
Lunga vita alla Repubblica europea!

Ulrike Guérot (docente di studi europei di politica e democrazia all'Università del Danubio in Austria) ha fondato e gestisce il laboratorio europeo per la democrazia a Berlino.
Ha pubblicato "Warum Europa eine Republik werden muss! Eine politische Utopie "(" perché l'Europa deve diventare una repubblica, un'utopia politica ", Dietz Verlag, 2016, non tradotta in francese)

martedì 26 dicembre 2017

GERUSALEMME E DINTORNI ALL' EPOCA DI GESU' CRISTO- Carta e articolo da Limes On Line




La carta inedita della settimana rappresenta com’erano, all’epoca di Cristo, le terre che attualmente fanno parte di Israele, Palestina, Giordania, Siria e Libano.

La questione del riconoscimento di Gerusalemme come capitale di Israele da parte degli Stati Uniti ha riportato al centro del dibattito il valore storico, religioso e geopolitico della città sacra alle confessioni cristiana, musulmana ed ebraica.

La mappa illustra l’ordinamento territoriale al tempo di Gesù. Sono disegnati i luoghi nei quali è citata la presenza di Cristo, dalla Natività a Betlemme fino alla Passione a Gerusalemme.

L’uso a scopi strategici della storia religiosa della Terrasanta non è una prerogativa esclusiva dello Stato ebraico e degli altri paesi mediorientali. Negli Stati Uniti, per esempio, è forte l’influenza politica della corrente fondamentalista evangelica, convinta dell’imminenza del ritorno del Figlio di Dio sulla Terra e dell’ineluttabilità dell’esistenza dello Stato d’Israele affinché si compia la profezia.

Il cristianesimo intrattiene una peculiare relazione con il territorio dov’è nato; ne ha scritto su Limes Andrea Riccardi, fondatore della comunità di Sant’Egidio:

“Il rapporto cristiano con le radici della propria fede si era concentrato sul Libro delle Scritture e sulla terra d’Israele, di Gesù, di Maria e degli apostoli. L’oggi del popolo ebraico non rappresentava le radici del cristianesimo. Al di là della stagione ambigua delle crociate, l’attrazione verso la Terrasanta, come la terra delle origini, aveva accompagnato secoli di storia cristiana. Dal 1333, nonostante il dominio ottomano, venne organizzata la Custodia di Terrasanta, una provincia francescana con il compito di vigilare sui luoghi santi cattolici e con un certo profilo internazionale.

Infatti la terra d’origine del cristianesimo con i luoghi santi principali di questa religione non è sotto dominio cristiano dalla conquista araba, ma – per usare la terminologia curiale – si trova in partibus infidelium. È una delle grandi differenze tra cristianesimo e islam (che non ha mai perso il controllo della Mecca e di Medina anche durante le fasi di decadenza).

È una diversità rivelatrice anche di un differente modo di concepire il rapporto con il potere civile: la creazione di uno Stato religioso è nei cromosomi dell’islam, ma non del cristianesimo che pure è anche costruttore di lunghi secoli di regime confessionale.

Tuttavia l’attrazione cristiana verso la terra delle origini è molto forte…”

Carta inedita di Laura Canali in esclusiva per gli abbonati a Limesonline.

domenica 24 dicembre 2017

L' ELEZIONE CHE CREO' DUE CATALOGNE - Analisi di Limes On Line -


Il voto regionale non risolve la crisi tra Barcellona e Madrid, non favorisce la creazione di un governo stabile ed evidenzia una frattura geografica e politica inedita tra indipendentisti e costituzionalisti.
di 
Le elezioni regionali del 21 dicembre in Catalogna ci offrono una fotografia molto nitida
, ma allo stesso tempo estremamente difficile da decifrare. Rispetto all’ultimo biennio non cambia nulla – e cambia tutto.

Le formazioni indipendentiste (Junts per Catalunya, Esquerra Republicana de Catalunya e la Cup) vincono le elezioni, mantenendo la maggioranza nel parlamento regionale, per quanto risicata (70 deputati su 135). Senza però superare la soglia magica del 50% dei voti (si fermano al 47,5%), favorite da una legge elettorale che premia le circoscrizioni dell’interno della regione. Un déjà-vu, insomma, di quello che è successo nella precedente tornata elettorale del settembre 2015. Ma ci sono anche delle novità importanti che segneranno il futuro della politica catalana e spagnola.

Un partito non catalanista, Ciudadanos, è per la prima volta il più votato in Catalogna. Il Partido Popular del premier Mariano Rajoy subisce invece una batosta terribile, andando sotto il 5%. Infine: la società è spaccata a metà. La frattura è evidente e potrebbero volerci anni per ricostruire un consenso minimo che superi la divisione tra i due blocchi.

La forte polarizzazione tra chi è a favore e chi è contro l’indipendenza è stata amplificata dall’altissima partecipazione (81,9%, un record). Un dato che dimostra che difficilmente nel futuro prossimo ci sarà uno spostamento rilevante di voti. Chi ha votato per l’indipendenza dopo l’accelerazione dei mesi scorsi e il commissariamento della regione da parte del governo centrale non cambierà idea. Chi ha votato contro l’indipendenza – tra cui molti astensionisti, che per la prima volta sono andati a votare – non salirà sul carro dell’indipendentismo. La situazione è in stallo.
I costituzionalisti: il grande successo di Ciudadanos
Quanto al blocco costituzionalista, è indubbio il successostorico di Ciudadanos, che si trasforma nel primo partito sia in seggi (37) che in voti (25,3%). È la prima volta che un partito non catalanista vince le elezioni regionali. La formazione guidata da Albert Rivera – che qui aveva come candidata Inés Arrimadas, giovane avvocatessa nata in Andalusia e leader del partito nella regione – è stata fondata solo una decina d’anni fa: prima dell’exploit del 2015, quando ottenne 25 deputati, non superava il 5-10% dei voti.

La vittoria di Ciudadanos avrà probabilmente conseguenze importanti sia in Catalogna sia in Spagna. In primo luogo, dimostra come il consenso catalanista, storicamente trasversale e vigente fino al 2010, sia definitivamente andato in pezzi. Ciudadanos, formazione di centro-destra liberista, ha raccolto una gran parte dei voti nell’area metropolitana di Barcellona e nei quartieri popolari delle grandi e medie città (è primo partito nel capoluogo catalano, a Tarragona, Lerida e nella maggior parte delle città della regione), soprattutto tra le classi lavoratrici di origine spagnola – storiche elettrici di socialisti o comunisti – immigrate in Catalogna tra gli anni Cinquanta e Settanta. Si tratta di un settore che si è sentito trascurato negli ultimi anni da un governo indipendentista che si rivolgeva solo ai propri elettori e non a tutta la popolazione. Ciudadanos è stato percepito come un voto utile (e “sicuro”) contro l’indipendentismo.

Non è da escludere una ricaduta sul medio o lungo periodo sulla politica spagnola: Rajoy governa in minoranza a Madrid proprio con l’appoggio di Ciudadanos, che nei sondaggi sta crescendo anche nel resto della Spagna. Per quanto il PP abbia una struttura solida sul territorio mentre Ciudadanos è un partito molto più liquido e mediatico, bisognerà vedere se i popolari saranno capaci di mantenere l’egemonia nel centro-destra spagnolo o se il partito di Rivera sfrutterà al massimo la carta dell’opposizione di destra a Rajoy sulla questione territoriale per trasformarsi in un attore chiave nelle dinamiche politiche del paese iberico.

Cosa farà il premier spagnolo è un grande punto interrogativo. È evidente che il commissariamento della regione si è dimostrato una vittoria di Pirro: ha funzionato nel breve periodo, ma l’appoggio dell’indipendentismo non è calato. Sembra ormai chiaro che, succeda quel che succeda – incluse le conseguenze negative sull’economia, come negli ultimi mesi – circa due milioni di catalani continuano a votare partiti indipendentisti. Non aumentano, è vero. Ma nemmeno calano.

Attendista per carattere – alla proposta di una riunione fatta da Puigdemont, ha replicato offrendo dialogo politico solo entro i confini sanciti dalla Costituzione – Rajoy dovrà innanzitutto digerire il pessimo risultato del suo partito, che ottiene solo 3 deputati. E dovrà decidere sul da farsi: parlando con gli indipendentisti, potrebbe perdere voti a destra e favorire l’ascesa di Ciudadanos in tutta la Spagna. Usando ancora di più la mano dura con Barcellona, dovrà mettere in conto che il PP potrebbe diventare extraparlamentare in Catalogna – uno scenario inedito in qualsiasi paese, tenendo conto il peso economico e demografico della regione – e che l’incendio catalano continuerà ancora a lungo.

Gli indipendentisti: la vittoria morale di Puigdemont
Il primo partito nel fronte indipendentista è Junts per Catalunya (JxCat), la lista voluta fortemente da Carles Puigdemont, il presidente deposto e fuggito in Belgio. Supera di una manciata di voti (21,6%, 34 deputati) il centro-sinistra di Esquerra Republicana de Catalunya (Erc), che, fermandosi al 21,4% (32 deputati) deve ancora attendere per realizzare l’agognato sorpasso dei suoi eterni avversari. È questo un dato importante: innanzitutto perché dimostra che la lotta per l’egemonia nel fronte indipendentista – che spiega l’accelerazione del governo catalano dell’ultimo biennio – la vince Puigdemont, ossia la vecchia Convergència Democràtica de Catalunya (Cdc), formazione che ha governato la regione per quasi trent’anni, prima con Jordi Pujol poi con Artur Mas. Mantenendosi al potere (vedremo come), l’ex Convergència può portare a compimento una rifondazione che era riuscita solo a metà lo scorso anno con la creazione del Partit Demòcrata Europeu Catalá (PDeCat).

Il successo di JxCat è una vittoria morale di Puigdemont nei confronti di Mariano Rajoy e della decisione di commissariare la regione, presa lo scorso 27 ottobre. Puigdemont si rafforza e per quanto abbia offerto un dialogo al premier spagnolo – una riunione a Bruxelles o in qualunque altra città all’estero – si mantiene fermo nel voler “restaurare il legittimo governo della Catalogna” e nel voler “attivare la Repubblica catalana”, senza specificare che cosa significherebbe effettivamente.

È infine da segnalare il forte arretramento degli anticapitalistidella Candidatura d’Unitat Popular (Cup), che raccolgono appena il 4,4%, passando da 10 a 4 deputati. Potrebbero giocare ancora un ruolo chiave in parlamento – nella scorsa legislatura sono stati l’ago della bilancia e hanno condizionato fortemente il governo catalano portandolo sulla via unilaterale – perché senza i loro voti gli indipendentisti non hanno la maggioranza assoluta.
Le sinistre penalizzate dalla polarizzazione
Le sinistre escono malconce da queste elezioni. I socialisti,che avevano appoggiato il commissariamento della regione ma si presentavano come una forza capace di aprire una nuova tappa politica difendendo una riforma costituzionale in senso federale, migliorano di poco i risultati del 2015 (13,9% dei voti e 17 deputati). Difficilmente potranno giocare un ruolo chiave nella nuova legislatura, a meno che non si apra la commissione parlamentare per la riforma della Magna Carta richiesta da Pedro Sánchez e posticipata sine die da Rajoy.

Perde voti (7,4%) e seggi (8) la formazione Catalunya en Comú-Podem, guidata dalla sindaca di Barcellona Ada Colau e appoggiata da Pablo Iglesias. I Comuns, che nelle elezioni generali spagnole del dicembre 2015 e del giugno 2016 sono stati il primo partito in Catalogna, pagano un discorso percepito come ambiguo – contro il commissariamento della regione, contro la via unilaterale e a favore di un referendum concordato sullo stile scozzese – e sono penalizzati dalla polarizzazione sulla questione nazionale. Non saranno l’ago della bilancia, come pronosticavano molti sondaggi, ma potrebbero comunque avere un ruolo importante nella ricostruzione di ponti di dialogo sia all’interno della Catalogna sia tra la regione e i partiti spagnoli. Vedremo anche se la crisi catalana penalizzerà Podemos nel resto della Spagna, come preannunciato da alcuni sondaggi.

I possibili scenari
La tappa che si apre ora è estremamente incerta. La formazione di un governo indipendentista è possibile, ma ci sono parecchie incognite al riguardo. Innanzitutto, non è chiaro quale sarebbe il programma portato avanti dal nuovo esecutivo: si manterrà la via unilaterale dopo il fallimento dell’autunno o si cambierà strategia, cercando un dialogo politico, lavorando per l’indipendenza sul lungo periodo e rispettando l’ordinamento costituzionale spagnolo? La seconda opzione sarebbe più logica, tenendo conto del fatto che gli indipendentisti non dispongono né di una maggioranza sociale, né degli appoggi internazionali, né di quelli del mondo economico.

L’indipendenza ora come ora è un’utopia irrealizzabile. Ma la lotta per l’egemonia tra l’ex Convergència e Erc (che non si conclude con la vittoria ai punti di Puigdemont), la necessità di contare con un voto a favore o almeno un’astensione degli anticapitalisti della Cup e la tentazione di provocare nuove reazioni dello Stato spagnolo (al fine di aumentare i consensi nella regione e di ottenere una mediazione internazionale) potrebbero impedire un necessario bagno di realismo dell’indipendentismo.

Non è chiaro neanche chi potrebbe essere il presidente del nuovo governo: Puigdemont è latitante in Belgio e se rientra in Spagna, sarebbe arrestato. Potrebbe presentarsi alla sessione di investitura? La magistratura giocherà un ruolo chiave in tutta la questione. Anche perché oltre a Puigdemont sono altri sette gli eletti indipendentisti fuggiti all’estero o incarcerati: se i giudici non concederanno loro la possibilità di partecipare alle sessioni della Camera catalana, l’indipendentismo perderà la maggioranza. Una questione non secondaria che infiammerebbe ancora di più la situazione.

Le elezioni non hanno risolto la crisi. Al contrario. La divisione della società è netta. Una cesura che è anche geografica: la Catalogna dell’interno è a grande maggioranza indipendentista, mentre la costa, e soprattutto Barcellona e la sua area metropolitana, è soprattutto anti-indipendentista.

Due Catalogne, insomma. Si apre una frattura che mai c’era stata grazie al minimo comune denominatore catalanista che tutti i partiti avevano accettato dopo la fine della dittatura franchista. Il discorso identitario polarizza: ci guadagna chi difende chiaramente una bandiera (Ciudadanos, JxCAT, parzialmente Erc), ci perde chi cerca di avviare un dialogo politico per superare la logica dei due blocchi (Psc, Comuns).

Le prossime settimane saranno cruciali per capire se ci sarà la volontà politica di uscire da una crisi che si protrae da oltre un lustro. A fine gennaio si formerà il nuovo parlamento regionale e a inizio febbraio si terrà la prima sessione di investitura: se non si riuscisse a formare un governo, ci sarebbero due mesi di tempo, poi si convocherebbero automaticamente nuove elezioni da tenersi alla fine di maggio. È un’ipotesi più che improbabile ora come ora, ma nulla è da scartare dopo quello che abbiamo visto negli ultimi mesi.

Quel che è certo è che si deve ridare protagonismo alla politica e al dialogo, completamente assenti negli ultimi 5 anni, altrimenti la crisi catalana si cronicizzerà e sarà estremamente difficile riparare la frattura della società.







venerdì 22 dicembre 2017

Maggioranza agli indipendentisti: la crisi della Catalogna continua - Articolo di Limes On Line


IL VOTO IN CATALOGNA [di Steven Forti]
Con un’altissima partecipazione (82%), le elezioni regionali in Catalogna sembrano un déjà vu di quelle del 2015: gli indipendentisti mantengono la maggioranza dei seggi in parlamento, ma non ottengono quella assoluta dei voti (47,5%).
Ci sono però delle differenze, che segneranno il futuro catalano e spagnolo.
Innanzitutto, il successo di Ciudadanos (25,3%): mai una forza non nazionalista catalana era stata il primo partito nella regione.
In secondo luogo, il tonfo del Partito popolare (4,2%): un risultato che potrebbe avere delle conseguenze sulla stabilità del governo di Mariano Rajoy. Il commissariamento della regione si è dunque rivelato una vittoria di Pirro per il premier spagnolo.
L’estrema polarizzazione mostra una società fratturata e premia le destre: i socialisti non sfondano e i Comuns della sindaca Colau perdono voti.
E ora? Sono molte le incognite riguardo a un possibile nuovo governo indipendentista, a partire da chi sarà eletto presidente. Se rientrasse in Spagna, Carles Puigdemont verrebbe arrestato: le decisioni della magistratura continueranno a giocare un ruolo chiave. E con quale programma si governerebbe? La via unilaterale non ha futuro. Si tornerà a fare politica? Inizierà finalmente un dialogo tra Barcellona e Madrid?
Convocate nella speranza di rimescolare le carte e rendere più agevole la ricerca di soluzioni politiche, le elezioni non hanno dunque dato i risultati sperati. Ma un solo verdetto: la crisi catalana, per ora, continua.

martedì 19 dicembre 2017

LE PROMESSE E IL PARADAOSSO DELLA DESTRA IN AUSTRIA - da Limes on Line


LE PROMESSE DI KURZ
Il nuovo governo di destra-destra dell’Austria potrà ottenere facili vittorie sul piano simbolico: dall’opposizione all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (ingresso che la stessa Ankara di fatto non vuole) al rifiuto delle quote sui migranti (rifiuto che altri paesi stanno già mettendo in pratica).
Sulle sanzioni alla Russia e sulla permanenza di Vienna nell’Ue però l’esecutivo del giovane Kurz ha già promesso che non creerà problemi, malgrado il programma elettorale della FPÖ promettesse atti dirompenti.
La vagheggiata concessione della cittadinanza austriaca ai sudtirolesi e il cinematografico blocco del Brennero rimarranno probabilmente lettera morta, ma confermano che l’Italia non potrà contare su Vienna.
Commenta Paolo Quercia:
Ha giurato il nuovo governo austriaco, frutto di un alleanza tra il Partito conservatore della OVP ed la destra dalla FPÖ, dalle tendenze più liberali in economia ma complessivamente di carattere nazionalista. Si apre ora uno scenario inedito: l’Austria si ritrova un governo nazional-conservatore nonostante il Partito socialista rimanga il secondo partito del paese e soprattutto nonostante la grande coalizione socialisti-popolari abbia incrementato il numero dei propri parlamentari alle ultime elezioni e avesse tutti i numeri per formare un governo.
La coalizione nero-blu nasce durante il mandato presidenziale di un rappresentante del Partito dei Verdi, Van Der Bellen, che ora non ha più un partito e che aveva garantito durante la sua campagna elettorale che la FPO non sarebbe entrata al governo. Divenuto presidente e dovendo gestire la formazione del nuovo esecutivo, Van Der Bellen ha abbassato le pretese, sostenendo che alla FPÖ non avrebbe mai dato Giustizia e Interno per timori – onestamente infondati – legati alla tenuta democratica. Alla fine, la FPÖ ha ottenuto i dicasteri di Interno, Difesa ed Esteri, mentre alla Giustizia è andato comunque un ex uomo del partito. Quasi mai nel dopoguerra Interno e Difesa sono finiti allo stesso partito, in quanto ciò vuol dire una egemonia pressoché totale sulla sicurezza e sull’intelligence.
Il governo che nasce ha un cancelliere-ragazzo trentenne, divenuto ministro degli Esteri a 27 anni senza aver mai conseguito una laurea universitaria. Pur rappresentando il partito di maggioranza governativa, Kurz si è costruito una squadra di governo prevalentemente basata su tecnici esterni e non sui quadri del suo partito, che in buona parte gli è contro.
Intanto la SPO – che vent’anni fa, in una situazione analoga e per impedire ad un FPÖ non dissimile di andare al governo, provocò una crisi diplomatica di (s)proporzioni europee – oggi sostanzialmente rinuncia a fare opposizione.
Detto questo, non ci sono particolari motivi per temere o screditare la nascita di questo esecutivo all’estero. In Europa i toni allarmati dell’avanzata dell’ultradestra populista e xenofoba appaiono totalmente inappropriati e fuori luogo. La collaborazione socialisti-cattolici è, quantomeno in Austria, arrivata al capolinea e non appare rispondere ai problemi degli austriaci di oggi.Che hanno votato Kurz non perché sia un grande statista ma perché ha promesso politiche di destra e di fare un governo con la destra. E sopratutto di modernizzare un paese bloccato, che viene da molti anni di scandali e sprechi – ovvia conseguenza di una politica consociativa senza opposizione.
Il 2018 si apre con il paradosso di un governo nazional-conservatore che ha la grande occasione di modernizzare il paese. Può fallire solo pensando al passato o finendo strumentalizzato nelle sue relazioni internazionali dall’azione di altri Stati. L’area di azione internazionale di Vienna nei prossimi cinque anni, difatti, rischia di essere molto calda e contesa.

martedì 12 dicembre 2017

Gli usi geopolitici dell’incidente di Baumgarten: interdipendenza energetica con il mondo tedesco: - Da Tarvisio arrivano i 2/3 del gas russo e da Trieste transita il 100% del fabbisogno petrolifero della Baviera e il 90% dell' Austria - E' al 90% della italiana SNAM il sito esploso.




L’IMPORTANZA DI BAUMGARTEN
Sono più di uno i motivi per cui l’incidente occorso nell’austriaca Baumgarten ha rilevanza geopolitica.
Innanzitutto, l’interruzione delle forniture di gas dal principale snodo europeo verso l’Italia conferma non tanto la ben nota dipendenza dagli approvvigionamenti russi. Quanto il potenziale di ricatto in mano all’Europa tedesca, dalla quale transitano due terzi del gas importato dal nostro paese da Russia e Mar del Nord, immettendosi nella rete nazionale presso Tarvisio e Passo Gries. Forma di dipendenza non abitualmente sottolineata, mentre è ampia la discussione sul vincolo dell’euro e sulle intrinsechezze industriali con il mondo germanico.

Non è sfuggito tale aspetto al ministro dello Sviluppo economico Carlo Calenda, che ha sottolineato la necessità per Roma di diversificare non tanto le fonti quanto le rotte dell’approvvigionamento gasiero. E di realizzare il Tap, gasdotto proveniente da Grecia e Albania che entro il 2020 dovrebbe portare in Puglia – e da lì nel resto del paese e oltre – energia dai giacimenti azeri. Ma non solo, poiché se il Turkish Stream dovesse superare il fabbisogno anatolico, allora anche il gas russo potrebbe finire nei tubi del Tap.

Infine, più a livello continentale, l’incidente austriaco servirà ai paesi dell’Europa Centro-Orientale riuniti nell’Iniziativa dei Tre Mari per sottolineare l’urgenza di aumentare l’integrazione e la protezione delle infrastrutture critiche. Per non essere costretti a dichiarare lo stato d’emergenza in episodi come questi. O in tentativi eversivi da parte di una potenza straniera.

Dal 2014 quasi l’85% del capitale del sito esploso e del gasdotto appartiene all’italiana Snam, che lo ha ereditato dall’Eni. Il restante 15,5% è della società austriaca Gas Connect Austria Srl, i cui azionisti sono al 51% l’Omv Gas & Power (società petrolifera analoga all’Eni italiana, proprietaria tra l’altro di una rete di distributori di carburanti, tra cui l’ultimo lungo l’autostrada prima di Tarvisio, in località Malborghetto) e di nuovo la Snam al 49%. In altre parole, il gasdotto della Tag, compresa la stazione di compressione di Baumgarten, dove è avvenuto lo scoppio, è quasi completamente italiano. La società ha 265 dipendenti e un fatturato annuo di 309,5 milioni.



Tuttavia sotto l' aspetto del transito di fabbisogno energetico bisogna ricordare anche che Il regime del Porto Franco di Trieste è utilizzato dall’ oleodotto transalpino TAL/SIOT che da 50 anni pompa petrolio greggio dal Punto Franco Oli Minerali fino a Ingolstadt sulle rive del Danubio fornendo il 40 % del fabbisogno petrolifero della Germania (il 100% della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90 % dell’Austria e oltre il 30% della Repubblica Ceca.






lunedì 11 dicembre 2017

Il vero azzardo di Trump su Gerusalemme - Articolo di Lucio Caracciolo -


La coincidenza degli interessi (elettorali) di Trump con quelli dei suoi alleati mediorientali punta a decretare la fine della questione palestinese, ma rischia per paradosso di riaprirla. Così svelando che le strategie di Usa, Stato ebraico e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta.


Nell’atto di riconoscere Gerusalemme quale capitale d’Israele, Donald Trump ha messo i suoi interessi politico-elettorali al di sopra di quelli del paese che rappresenta.

Il presidente è concentrato più sulle elezioni parlamentari di mezzo termine, che fra meno di un anno potrebbero decidere del suo futuro politico, facendone un’”anatra zoppa” a metà del suo primo e forse unico mandato, che sull’interesse nazionale.

Nulla di straordinario, nella storia degli inquilini della Casa Bianca. Il cui primo obiettivo, una volta insediati nello Studio Ovale per quattro anni, è di assicurarsi il secondo mandato. Fatto è che pur di mantenere (caso raro) una promessa fatta allo zoccolo duro del suo elettorato – schierato sempre e comunque con lo Stato ebraico in quanto paese più che alleato, gemello – “The Donald” ha rotto il tabù diplomatico che aveva permesso agli Usa di sceneggiare l’esistenza in vita di una mediazione fra palestinesi e israeliani morta e sepolta da quasi vent’anni.

Settori rilevanti dell’establishment americano, a cominciare dall’alta burocrazia militare e diplomatica, da alcuni laboratori strategici e d’intelligence, condannano la mossa come avventata. Inutilmente il pur influente ministro della Difesa, Jim “Cane Matto” Mattis, e il del tutto ininfluente ex (?) petroliere Rex Tillerson, capo del fatiscente Dipartimento di Stato, hanno cercato di dissuadere Trump da questa “opzione nucleare”. Convinti che avrebbe eccitato l’antiamericanismo non solo in Medio Oriente, minacciato la vita di civili e militari a stelle e strisce, alimentato la propaganda e il terrore jihadista.

Il rischio per gli Stati Uniti – che da tempo considerano il Medio Oriente scacchiere secondario ma non riescono a emanciparsene, continuando a sprecarvi risorse militari, finanziarie e d’immagine – è di finire strumento dei loro due Stati di riferimento nella regione: Israele e Arabia Saudita. Il primo sentito consanguineo. Il secondo, alleato non sempre affidabile ma capace di dotarsi a pagamento di una tale rete di protezione nei meandri del potere a stelle e strisce da oscurare il fatto che ad abbattere le Torri Gemelle furono suoi sudditi.

Il triangolo Washington-Gerusalemme-Riyad è concorde nel valutare Teheran unico nemico strategicotra Levante, Golfo e Asia centromeridionale. La questione palestinese è capitolo chiuso anche per gli altri leader arabi e musulmani, che pur fingono di interessarsene e protestano contro la sacrilega scelta di Trump. Sicché per Usa, Israele e Arabia Saudita è inutile investirvi tempo, soldi e soldati, da destinare invece al contrasto dell’imperialismo iraniano.

Risultato: la Palestina non sarà mai vero Stato né Gerusalemme Est la sua capitale. Al massimo, ciò che resta dell’Autorità palestinese, tenuta artificialmente in vita dai suoi nemici israeliani, in collaborazione con americani, sauditi, petromonarchie minori del Golfo ed europei (solo nei panni di ufficiali pagatori), potrà fregiarsi di una statualità puramente decorativa, simbolica.

La retorica dei due Stati non punta ai due Stati. Serve a coprire l’espansione territoriale di Israele in Cisgiordania e nella Grande Gerusalemme. Dato di fatto irreversibile se non per improbabile inversione geopolitica o suicidio israeliano. Da ornare, al massimo, con qualche foglia di fico. Basta uno sguardo alla carta dei Territori occupati (contestati, dal punto di vista israeliano), segmentati in mille frammenti, per rendersi conto che fondarvi un qualsivoglia Stato è vano. Figuriamoci centrarlo su Gerusalemme.

Lo strano triangolo che lega la massima potenza mondiale allo Stato ebraico e al feudo wahhabita in cerca d’identità non solo petrolifera sembra aver deciso che è tempo di troncare anche formalmente l’equivoco palestinese. Stabilendo che Gerusalemme, tutta Gerusalemme, è capitale di Israele. Punto. Esattamente settant’anni dopo che David Ben-Gurion, accettato il piano di bipartizione della Palestina in uno Stato arabo e uno ebraico, aveva sacrificato la città santa in cambio dell’esistenza di Israele, accedendo all’idea di farne un “corpo separato” a gestione internazionale. Piano stracciato dagli arabi, a spese anzitutto dei palestinesi, convinti di rigettare a mare gli ebrei.

Un mese fa, il giovane e avventuroso leader saudita Mohammad bin Salman (noto come MbS) aveva fatto capire senza troppe cerimonie al figurativo presidente palestinese Mahmud Abbas (alias Abu Mazen), convocato a Riyad, che il tempo era scaduto. Comunicazione secca: i palestinesi si adattino a uno staterello di facciata, collazione dei coriandoli di spazio cisgiordano su cui Israele non esercita un controllo diretto, privo di continuità territoriale. Con Abu Dis, sobborgo di Gerusalemme Est, eretta a “capitale” della Palestina fantasma. Prendere o lasciare. Nel secondo caso, la casa saudita, d’intesa con israeliani e americani, avrebbe provveduto a installare Mohammed Dahlan (Abu Fadi), avversario del vecchio Abu Mazen, a capo della pseudo-Palestina. Il colloquio, a quanto pare, si era interrotto bruscamente.

Resta da vedere se la peculiare costellazione formata dalla coincidenza degli interessi personali di Trump con le attuali strategie israeliana e saudita raggiungerà l’obiettivo di decretare la fine della questione palestinese.

O se invece, per paradosso, rianimerà almeno per qualche tempo quella partita sapientemente sopita dalle diplomazie di tutto il mondo per evitare la definitiva umiliazione dei palestinesi. Così svelando che le strategie di Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita non sono così convergenti come pretende chi oggi le orienta.

E che quindi la demonizzazione dell’impero persiano, oggi reincarnato dall’Iran, non conviene a nessuno.


martedì 5 dicembre 2017

TUTTI I VIDEO DELLA PRESENTAZIONE DEL NUOVO LIBRO CON "LECTIO MAGISTRALIS" DI PARAG KHANNA A TRIESTE - CON COUPON SCONTO PER ACQUISTARE I SUOI LIBRI RISERVATO AI NOSTRI LETTORI -


Pubblichiamo tutti i video della presentazione, con "Lectio Magistralis" di Parag Khanna, del nuovo libro "La Rinascita delle Citta Stato" edito da Fazi.
Ringraziamo il sito specializzato d' informazione sulla portualità FAQ-TRIESTE (http://faqts.blogspot.it/) che ha realizzato le riprese e ne ha concesso l' uso.


Alla fine troverete un coupon-sconto riservato ai nostri lettori per acquistare i libri di Parag Khanna alla Libreria Einaudi di via Coroneo 1 che ha coorganizzato l' evento. 

I ricavi delle vendite servono a coprire i costi dell' iniziativa.

INTRODUZIONE PAOLO DEGANUTTI - LIBRERIA EINAUDI E LIMES CLUB TRIESTE













INTERVENTO - COMMENTO ZENO D'AGOSTINO ADSP MARE ADRIATICO ORIENTALE



PADRE LARIVERA INTRODUCE CASALEGGI (DIRETTORE AREA DI RICERCA)



INTERVENTO - COMMENTO DI STEFANO CASALEGGI ( DIRETTORE AREA SCIENCE PARK TRIEST)



PADRE LARIVERA PRESENTA STEFANO VISINTIN (PRESIDENTE DEGLI SPEDIZIONIERI)



INTERVENTO - COMMENTO STEFANO VISINTIN (PRESIDENTE DEGLI SPEDIZIONIERI DI TRIESTE E DELLA REGIONE FVG)



CONCLUSIONI PADRE LARIVERA




COUPON SCONTO 15% DA UTILIZZARE PER I LIBRI DI PARAG KHANNA
PRESSO LA LIBRERIA EINAUDI, VIA CORONEO 1, TRIESTE
Per utilizzarlo basta presentarlo alla cassa stampato o sul cellulare.