DIBATTITO SU QUESTIONI INTERNAZIONALI PER UNA CITTA' INTERNAZIONALE

venerdì 28 aprile 2017

TRIESTE E' IN TESTA TRA LE PROVINCE NELL' INTERSCAMBIO CON L' ECONOMIA TEDESCA - MAPPA INEDITA E ARTICOLO DI LIMES



E' uscito oggi su LimesOnLine un articolo con la mappatura delle aree italiane in base ai rapporti con l' economia e le imprese tedesche.
Trieste risulta in testa, e molto avanti il Friuli e il Goriziano, nonostante nel metodo di ricerca si valutino gli investimenti ma non si dia conto dei legami economici e strategici derivanti dalle merci in transito nel nostro porto che lavora al 90 % con l' estero.

In particolare per avere un quadro completo della dimensione geopolitica dei rapporti economici tra il mondo tedesco e Trieste andrebbe valutato anche il valore strategico dell' Oleodotto transalpino TAL/SIOT che da 50 anni pompa petrolio greggio dal Punto Franco Oli Minerali fino a Ingolstadt sulle rive del Danubio 
fornendo il 40 % del fabbisogno petrolifero della Germania (il 100% della Baviera e del Baden-Württemberg), il 90 % dell’Austria e oltre il 30% della Repubblica Ceca.


I rapporti economici tra le imprese tedesche e l' italia. 
Mappa inedita basata su uno studio di Limes e Unioncamere Emilia-Romagna.
di 


La carta inedita della settimana è sui rapporti economici fra Italia e Germania ed è l’esito di una ricerca condotta da Limes e Unioncamere Emilia-Romagna.

La mappa rappresenta un indicatore sintetico delle relazioni economiche delle province italiane con Berlino. L’indice effettua una media ponderata fra i rapporti commerciali, il numero delle imprese italiane che hanno acquisito partecipazioni di controllo in Germania e il numero delle società nostrane (e relativo fatturato) controllate da un azionista tedesco.

La Germania è il primo partner commerciale italiano con 112 miliardi di euro di interscambio nel 2016. È inoltre il secondo investitore estero per numero di società controllate nel nostro paese (2391, il 10,6% del totale. Secondo il Lussemburgo con 2407) e per fatturato controllato da un paese straniero (86 miliardi di euro, il 15% del totale. Secondi gli Usa con 93 miliardi).
È infine la terza destinazione dei nostri investimenti oltre confine: 3332 aziende tedesche hanno un azionista di riferimento italiano, contro le 3400 in Francia e le 5899 negli Stati Uniti.

L’influenza tedesca si esplica lungo i principali assi viari: dal passo del Brennero in Alto Adige fino a Firenze è possibile seguire il percorso delle autostrade A22 e A1, così come da est a ovest corre la A4, collegando il Veneto a Torino, passando per Milano.

L’incidenza del mercato tedesco è nettamente sbilanciata sul Nord. La Germania è primo investitore straniero in sole 12 province settentrionali su 47, ma in esse si concentra il maggior fatturato controllato dagli azionisti tedeschi (a eccezione delle acciaierie di Terni). Il Settentrione ospita l’85% delle imprese (2035) e l’87% del fatturato (75 miliardi) controllati dalla Germania in Italia.

A loro volta, gli investitori del Nord Italia hanno la Germania come terza destinazione preferita (2674 imprese con azionista di riferimento settentrionale); la precedono la Francia (2892) e soprattutto gli Stati Uniti (4320).

Nonostante la Germania figuri come primo investitore in alcune province centro-meridionali, l’entità del fatturato controllato non è lontanamente comparabile a quello del Nord: per esempio, la Germania controlla il 100% delle imprese con azionista estero della provincia sarda di Medio Campidano, ma queste hanno fatturato nel 2016 un totale di appena 479 mila euro.

Le maggiori società di proprietà teutonica o controllate da azionisti tedeschi hanno sede nel Nord Italia, soprattutto in Lombardia. Anche se a primeggiare per fatturato è Allianz, basata a Trieste, e Verona può vantare la presenza di Volkswagen e Lidl Italia.

Roma è l’unica provincia non settentrionale a figurare nella fascia più alta di incidenza del mercato tedesco – assieme a Firenze, la quale per contiguità territoriale è però inseribile nella sfera d’attrazione tedesca nordica. Nonostante vi abbiano sede attori importanti in campo automobilistico o assicurativo, la presenza teutonica nella capitale risponde però soprattutto a esigenze di rappresentanza politica.

Il tessuto manifatturiero e imprenditoriale del Nord Italia sarà dunque fisiologicamente portato a fare pressioni politiche su Roma per mantenere il paese dentro la sfera d’influenza tedesca, qualunque forma essa assumerà in futuro: Unione Europea, Kerneuropa o Europa a più velocità.

Testo di Federico Petroni.
Dati Istat e Bureau van Dijk elaborati da Unioncamere Emilia-Romagna in esclusiva per Limes.

Carta inedita di Laura Canali in esclusiva per Limesonline completa:


giovedì 27 aprile 2017

GAS ED ENERGIA PER L' EUROPA - Una mappa di Limes On Line in esclusiva


La carta inedita della settimana è dedicata all’energia, in particolare ai gasdotti verso l’Europa Occidentale e l’Italia.

Il tema, tornato alla ribalta nel nostro paese per vie delle proteste contro il Gasdotto transadriatico (Tap), è da tempo presente nell’agenda dei governi europei e della Russia.

Le poste in gioco sono eminentemente geopolitiche.

Le valutazioni strategiche dietro ai rischi legati (per l’Europa) alla dipendenza energetica da Mosca e (per Mosca) alla dipendenza dall’Ucraina per l’export del gas coinvolgono i paesi dell’area, ma anche quelli mediorientali – potenziali rivali della Russia – e naturalmente gli Stati Uniti.

Gli Usa sono interessati al paniere energetico del Vecchio Continente non solo per motivi commerciali, ma anche in chiave strategica anti-russa.

Spiega Marco Giuli:

La Trans-Adriatic Pipeline (Tap) è un gasdotto in costruzione che percorre 870 km dal confine greco-turco alle coste pugliesi, attraverso Grecia, Albania e mare Adriatico. A partire da fine 2020 trasporterà circa 10 miliardi di metri cubi annui di gas azero proveniente dal giacimento caspico di Shah Deniz 2 . La Tap costituisce il tratto finale, in territorio comunitario, di una rotta che include la South Caucasus Pipeline (Scpx) e la Trans-Anatolian Pipeline (Tanap).

Tale rotta inaugura il Corridoio Sud, piano infrastrutturale volto a garantire all’Europa l’accesso al gas caspico e mediorientale. Fin dagli anni Novanta il Corridoio Sud è stato sostenuto dagli Stati Uniti e dall’Unione Europea con l’obiettivo di liberare le risorse caspiche dalla dipendenza dal panorama infrastrutturale post-sovietico, contribuendo a ridurre l’influenza russa nell’area e la dipendenza europea dal gas di Mosca.

Negli anni queste ambizioni si sono articolate intorno ai progetti concorrenti Nabucco (che avrebbe dovuto portare il gas caspico verso l’Austria) e Tappiù economico e meno ambizioso. Nel 2013, il consorzio Shah Deniz 2 guidato da British Petroleum e Socar ha infine selezionato il Tap. Fra i fattori decisivi nella scelta, le dispute per lo status legale del Caspio – un ostacolo per la partecipazione del gas turkmeno al corridoio, il cui contributo avrebbe giustificato le dimensioni del Nabucco – e il crescente scetticismo degli investitori sulla domanda europea.

Nella sua attuale configurazione il Corridoio Sud – e con esso il Tap – ha perso parte della sua rilevanza geopolitica per due motivi: le dimensioni al momento modeste e le dinamiche dei mercati del gas. I 10 miliardi di metri cubi che entrerebbero in Europa rappresentano solo il 2,4% del consumo continentale di gas: certo non un game changer rispetto ai 133 miliardi di metri cubi venduti da Gazprom in Europa nel 2015.

Il Tap servirà più a coprire il gap di produzione europeo che a contendere quote di mercato ad altri esportatori in futuro, e servirà un outlet già ben diversificato come quello italiano rispetto alla regione balcanica, considerata vulnerabile dagli stress test effettuati dall’Ue nel 2014.

Se il progetto russo Turkish Stream dovesse svilupparsi con una capacità superiore a quella necessaria per servire il mercato turco, il Tap potrebbe in futuro addirittura trasportare anche il gas russo. Infatti, una volta scaduto il regime di eccezione che garantisce al gas azero l’uso esclusivo del gasdotto per 25 anni, la capacità di questo sarà liberamente contendibile sul mercato in base alle regole del terzo pacchetto energia approvato da Bruxelles nel 2009.

L’accresciuta flessibilità infrastrutturale nell’Ue, l’evoluzione del quadro regolamentare e l’abbondanza di gas sui mercati mondiali hanno significativamente ridotto le rigidità fisiche e contrattuali alla base della vulnerabilità europea rispetto agli abusi di mercato di Gazprom. Per anni il Corridoio Sud è stato visto come l’unica possibilità di diversificare gli approvvigionamenti; ora è solo una possibilità fra le tante.

Per l’Italia, il Tap si inserisce in un piano di sviluppo di un hub mediterraneo del gas delineato dalla Strategia Energetica Nazionale del 2013, che aumenterebbe la rilevanza geopolitica del paese per i partner europei.

Roma è in una buona posizione per acquisire tale centralità, grazie alla sua capacità di importazione attraverso pipeline multiple e rigassificatori e di riesportazione verso l’Europa attraverso i recenti investimenti in reverse flow nei gasdotti che attraversano le Alpi. In questo senso vanno letti anche i piani di ampliamento della rete domestica e delle capacità di stoccaggio e il sostegno italiano a EastMed. Questo gasdotto, che porterebbe il gas israeliano e cipriota verso l’Europa, è stato inserito da Bruxelles fra i progetti di interesse comune (come il Tap).

Fra le maggiori incognite per la futura espansione del Tap rimangono le possibilità, al momento magre, che le grandi risorse di Iran e/o Turkmenistan possano confluire nel Corridoio Sud; la possibile recrudescenza della violenza nelle provincie orientali turche, in cui attori non statuali hanno spesso attaccato le infrastrutture energetiche; e la dinamica della domanda europea di gas, alla luce dei piani veterocontinentali di decarbonizzazione e della potenziale saturazione del mercato da parte della sovracapacità russa.

Carta inedita di Laura Canali in esclusiva per Limesonline

lunedì 24 aprile 2017

Macron-Le Pen: al ballottaggio la Francia voterà sull’Europa e sulla propria sopravvivenza - Ancora non è successo niente - un articolo di Limes On Line


Il primo turno delle presidenziali si chiude senza sorprese. Il ballottaggio, l’annientamento del Partito socialista e la sconfitta della destra gollista potrebbero portare la politica transalpina a ricomporsi attorno alla vera posta in gioco.

È noto che, alla data del 14 luglio 1789, il re di Francia Luigi XVI scrisse sul suo diario: rien (nulla). La rivoluzione era scoppiata e il sovrano non se n’era accorto perché né lui, né i suoi sudditi, né il resto del mondo se l’aspettavano.

Il risultato del primo turno delle presidenziali del 23 aprile non è una rivoluzione francese. Non solo perché non giunge inaspettato, ma soprattutto perché in una certa misura è dipeso dal caso.

Se François Fillon non avesse cocciutamente e contro ogni logica mantenuto la propria candidatura e avesse ceduto il timone della destra perbene a Alain Juppé, probabilmente le cose sarebbero andate diversamente e nessun commentatore parlerebbe oggi di rivoluzione. Il caso ha svolto il ruolo di “levatrice della storia”.

Il successo di Macron e Le Pen, l’annientamento del Partito socialista (Ps) e la sconfitta della destra perbene (Les Républicains) potrebbero portare all’ormai da tempo matura ricomposizione del panorama politico francese attorno alla vera posta in gioco: l’Europa.

Per la Francia come per la Germania, l’Europa è questione di sopravvivenza. La prima senza l’Europa finisce nell’insignificanza, la seconda finisce per essere di nuovo ossessionata dal cauchemar des coalitions che turbava i sonni del cancelliere Bismarck.

La Germania ha mostrato la via dal 2005, cioè da quando il referendum francese ha ufficialmente aperto la crisi del progetto europeo: la Große Koalition è certo un espediente per permettere al governo tedesco di avere una confortevole maggioranza parlamentare, ma è anche e soprattutto una maggioranza europea, cui partecipano i partiti che hanno fatto dell’Ue il loro orizzonte strategico. Poco per volta e spesso senza premeditazione, altri paesi si sono messi al passo; compresa l’Italia, dopo l’ignominiosa cacciata di Berlusconi nell’autunno 2011 e la nascita del governo Napolitano-Monti-Alfano.

In Francia invece le cose sono andate avanti come se nulla fosse, con la stanca contrapposizione tra una “destra” (gollista) e una “sinistra” (socialista) tenute insieme dai loro apparati e dalle loro reti di potere, ciascuna albergando al proprio interno una maggioranza europeista e una minoranza anti-Bruxelles.

A destra, alcuni (Bayrou, Raffarin, Juppé) hanno provato a lanciare dei segnali in vista di una coalizione europea che non hanno avuto seguito; altri se ne sono andati in direzione opposta (Dupont-Aignan, Asselineau). A sinistra invece la coabitazione di due partiti opposti all’interno dello stesso partito ha finito per portare all’implosione.

Il Partito socialista è in stato di morte clinica proprio dal referendum del 2005, quando l’allora segretario François Hollande accettò la convivenza dei due partiti. Ufficialmente in nome di un ecumenismo socialista che in fondo era stata l’intuizione geniale di François Mitterrand, in realtà per tenere insieme un apparato di potere che esisteva proprio grazie all’incrocio delle reti di potenti rais, schierati chi di qui e chi di là della scelta europea.

La pretesa di governare la Francia con lo stesso spirito di bamboccismo buonista che gli aveva permesso di mantenere il Ps in vita con il polmone artificiale ha provocato la catastrofe del peggior quinquennato della storia francese e la definitiva implosione del partito stesso. Che è avvenuta prima delle elezioni, visto che i candidati socialisti erano tre: uno dell’ala anti-europea (Mélenchon), uno dell’ala filo-europea (Macron) e uno della palude (Hamon), che nella palude è rimasto.

Così la Francia è entrata in una nuova fase della propria storia politica, dove la scelta diventa chiara come nel referendum britannico su Brexit: o con l’Europa o fuori dall’Europa.

Le reazioni dei candidati sconfitti si sono immediatamente allineate a questo nuovo dato di fatto (segno che i tempi erano maturi). Fillon e Juppé si sono affrettati a portare il loro sostegno a Macron. La loro strategia è chiara: fare dei Républicains l’unico partito storico in grado di presentarsi unito (e quindi vincere) le elezioni legislative di giugno. Ma entrambi hanno una motivazione supplementare: Fillon deve salvare la pelle e rimandare il più possibile un regolamento di conti che potrebbe essere sanguinoso; Juppé si candida a primo ministro di un’eventuale cohabitation. Ma quest’ultima formula ha adesso un sapore di passato.

Mitterrand e Chirac si detestavano, come pure Chirac e Jospin. Oggi la situazione è completamente diversa. Quando Juppé era il favorito delle primarie a destra e Macron non era ancora candidato, c’era chi parlava di un futuro governo Macron sotto la presidenza Juppé. Nessuno evocava la cohabitation. Oggi le parti si sono semplicemente invertite.

Uno degli effetti più sorprendenti del primo turno è l’immediata conversione di Juppé e dei suoi luogotenenti al vangelo macroniano: una rapida menzione – obbligata e neanche troppo velatamente sarcastica – al “lodevole sforzo” di Fillon, e poi di corsa a proclamare il superamento di destra e sinistra, la centralità dell’Europa e del libero mercato e così via macronizzando.

Per Macron, un Juppé primo ministro non sarebbe certo l’immagine ideale della rottura col passato. Ma un’eventuale vittoria dei Républicains a giugno potrebbe cavarlo d’impaccio, “obbligandolo” a scegliere uno di loro (ovviamente quello più vicino a lui); Juppé dal canto suo potrebbe fare una scelta à la Cincinnato e passare la mano a uno (o una) dei suoi più fedeli discepoli, divenuti nel frattempo i più fedeli discepoli di Macron.

Mentre la scelta di Hamon di appoggiare Macron è il cane che morde il padrone, la scelta di Mélenchon di non dare indicazioni di voto al secondo turno è il padrone che morde il cane. Ma c’è una certa coerenza, visto che sulla questione centrale – l’Europa – e sulle questioni sociali – protezionismo e statalismo – i programmi di Mélenchon e di Le Pen erano sovrapponibili.

Se il programma economico di Le Pen rischia di trasformare la Francia in un altro Venezuela, il supertifoso di Maduro, Chávez, Morales e Castro non può che esserne soddisfatto e la possibilità che Parigi abbandoni l’Ue e la Nato per entrare nell’Alleanza bolivariana dei popoli della nostra America si avvicina.

Ciò non vuol dire che gli elettori di Fillon voteranno compattamente per Macron e che quelli di Mélenchon voteranno per Le Pen. Molti dei seguaci di Fillon – la cathosphère – hanno fatto capire durante la campagna che Le Pen era la loro seconda scelta, che automaticamente diventa la prima. Molti degli elettori di Mélenchon si asterranno oppure obbediranno al richiamo della foresta antifascista, o presunta tale.

Ma il referendum sull’Europa non ha ancora avuto luogo. Per questo, bisogna aspettare il 7 maggio.

venerdì 21 aprile 2017

Nel caso Del Grande, l’Italia fa gli errori di sempre - Un articolo di Limes - Il Porto di Trieste lavora moltissimo con gli operatori turchi e un peggioramento delle relazioni con la Turchia potrebbe avere effetti molto negativi.


Oggi Limes On Line pubblica un articolo che ci riguarda da vicino visti gli intensi rapporti commerciali che il Porto di Trieste ha con la Turchia ( clicca QUI) : lo riproduciamo per i nostri lettori non abbonati. 

Il nostro paese non ha imparato dal passato: stiamo affrontando la vicenda del reporter arrestato in Turchia con la stessa pericolosa incoscienza che ci è già costata caro con Egitto, India e Brasile. Dovremmo capire la strategia di Erdoğan.
di 

Ci risiamo!

Nonostante gli insegnamenti che dovremmo essere stati capaci di trarre dai precedenti episodi, in particolare da quello dei due marinai arrestati in India e dal più recente “caso Regeni“, stiamo affrontando la vicenda di Gabriele Del Grande – il reporter italiano arrestato in Turchia – con la stessa pericolosa e inconcludente incoscienza.

Eppure quegli episodi avrebbero dovuto chiarirci una volta per tutte almeno tre punti.

In primo luogo: una reazione immediata, a caldo, è sempre una reazione d’istinto. Vi giocano un ruolo particolarmente importante fattori e sentimenti che sarebbe meglio mantenere sotto controllo almeno sino a quando non si avrà una chiara idea di quali siano le ragioni e la tattica, se non la strategia, della controparte.

In secondo luogo: non conviene attribuire a un incidente tutto sommato banale e trascurabile – se visto alla luce di quelle che sono le normali reazioni fra due Stati sovrani – un’importanza tale da elevarlo subito al rango di “caso internazionale”. Ciò impedisce alla giustizia e alla diplomazia di entrambi i paesi di seguire il loro normale iter, magari un po’ lungo ma sicuramente privo di tutti quegli elementi di turbativa che possono introdurvi un’opinione pubblica intollerante, una stampa straordinaria nell’amplificare ma del tutto incapace di farsi portavoce di un sereno richiamo alla saggezza e forze politiche sempre pronte a cavalcare qualsiasi onda emotiva che percorra il loro potenziale elettorato.

In terzo luogo: questo tipo di reazione non tiene conto di come sia sempre controproducente per l’Italia – una media potenza declinante e capace di assumere posizioni forti soltanto a parole – innescare contenziosi duri con paesi che si considerano medie potenze emergenti, con credenziali democratiche molto discutibili e spesso guidati da un “uomo forte” che non attende altro che di poter evidenziare la propria risolutezza in casi del genere, negandoci magari anche quello che sarebbe nostro diritto pretendere.

Sono caratteristiche riscontrabili in parecchi casi precedenti, in parte ancora aperti, in parte risoltisi in maniera per noi del tutto insoddisfacente.

Abbiamo così preteso dal Brasile l’estradizione del terrorista Battisti, che ci è stata negata. Abbiamo inferto un colpo durissimo alle relazioni con l’India grazie all’arroganza con cui abbiamo inizialmente richiesto il rientro in Italia di La Torre e Girone, salvo cambiare tattica dopo parecchio tempo, allorché il danno era divenuto difficilmente riparabile. Probabilmente ancora non abbiamo deciso come agire qualora la Corte Internazionale ci desse torto e pretendesse la restituzione dei nostri marò alla giustizia indiana.

Con l’Egitto abbiamo ancora il caso Regeni in sospeso e se abbiamo ottenuto qualche risultato lo dobbiamo all’azione delle due magistrature nazionali, che hanno continuato a fare il loro lavoro in silenzio e nel rispetto delle regole. Atti di facciata come il ritiro dell’ambasciatore, immediatamente reciprocato dal Cairo, le prese di posizione del governo, le dichiarazioni della politica e i clamori densi di presunte rivelazioni della stampa sono nel frattempo riusciti a farci perdere – in un paese che era la nostra storica controparte dall’altro lato del Mediterraneo – una posizione di privilegio conquistata al prezzo di decenni di duro lavoro.

Ora sfidiamo la Turchia, oltretutto in un momento in cui il suo presidente Erdoğan sta cercando di costringere il paese a una svolta in senso autoritario cui si oppone buona parte della popolazione e che è stata sanzionata da un referendum sulla cui correttezza gli osservatori internazionali hanno espresso un giudizio fortemente negativo.

In simili condizioni, quale miglior pretesto della vicenda Del Grande per distogliere l’attenzione dell’elettorato turco dalle vicende domestiche facendo appello al forte sentimento nazionale del paese e indirizzando verso un altro bersaglio – l’Italia – l’attuale diffuso malcontento?

Impossibile? Difficile? Chi ha la memoria abbastanza lunga ricorderà la facilità con cui l’opinione pubblica turca si infiammò nei nostri confronti allorché Öcalan, il capo del Pkk curdo – considerato da Ankara un movimento terroristico responsabile negli anni della morte di circa trentamila persone – cercò rifugio a Roma. In quell’occasione si ipotizzò il boicottaggio dei prodotti italiani in tutta l’Anatolia e il risentimento si calmò solo quando fu chiaro che l’Italia non avrebbe mai permesso un processo al leader curdo, che si sarebbe inevitabilmente trasformato in un processo alla Turchia e al suo regime di allora.

Il caso Del Grande non ha sufficiente rilievo? Per il momento è vero, ma se continuiamo ad agitarci scompostamente come abbiamo fatto sinora saremo noi a fornire tutto il fiato necessario per trasformare la rana in un bue, servendo a Erdoğan l’occasione su un piatto d’argento. Non dobbiamo dimenticare come tra lui e l’Italia ci sia stato di recente un momento di forte tensione, generato da un procedimento giudiziario forse troppo affrettato iniziato a Bologna contro uno dei suoi figli e rinfocolato dal presidente turco con affermazioni davvero poco diplomatiche nei confronti del nostro paese.

Serve quindi molta cautela nell’affrontare questa e altre situazioni analoghe che potranno presentarsi nel futuro. Cerchiamo prima di capire cosa sia davvero successo e quali siano le ragioni della controparte, o perlomeno quelle che essa ritiene di avere. Seguiamo fino a quando si può i canali normali: governativi, politici, diplomatici, giudiziari….a ben guardare ce ne sono tanti. Evitiamo di infilarci in un vicolo cieco in cui nessuno dei due può più fare marcia indietro senza perdere la faccia, tanto sul piano nazionale che su quello internazionale.

Soprattutto, fino a quando possibile, evitiamo di fare la voce grossa e di cercare di imporre le cose unilateralmente. I tempi in cui ci potevamo concedere dei lussi del genere sono definitivamente trascorsi. Sarebbe bene che lo capissimo!

martedì 18 aprile 2017

Il referendum in Turchia trasforma Erdoğan da leader a capobanda- Un articolo di Limes



La vittoria risicata del Sì consegna al presidente la forma di governo che voleva, ma la geografia del voto evidenzia dati allarmanti: il consenso nelle grandi città è evaporato, persino a Istanbul. Il decisivo astensionismo del Pkk apre nuovi scenari nel paese e in Siria.

Erdoğan ha vinto il referendum. Forse, però, ha perso la Turchia.

Non era così che doveva andare e il presidente turco lo sa. Lo diceva chiaramente il volto corrucciato esibito in pubblico durante le celebrazioni per la vittoria del “Sì”. Non era lo stesso volto del 12 giugno 2011. Stavolta non hanno vinto Sarajevo, Baku, Gaza e il resto del mondo. Perché stavolta non ha vinto neanche lui.

Il 51% gli basta per ottenere i superpoteri presidenziali, che dovrebbero entrare in vigore dopo le elezioni presidenziali del 2019 (usare l’indicativo futuro in Turchia non ha più alcun senso). Ma non è sufficiente per tenere insieme una nazione che il 16 aprile ha mandato un messaggio chiarissimo al suo capo: ti stai allargando troppo.

Il 51% può essere considerato un successo straordinario se si parte dal presupposto che in Turchia il sostegno al sistema presidenziale non è mai andato oltre il 25-30%. E che il 7 giugno 2015 l’Ak Parti perse 10 punti percentuali rispetto alle precedenti elezioni proprio perché Erdoğan trasformò quella consultazione in un referendum sulla forma di governo.

Il 51% è invece un bagno di sangue se si considera che il presidente turco ha approcciato il referendum alla guida di una coalizione che il 1° novembre 2015 aveva ottenuto oltre il 60% dei voti.

Il primo sconfitto è proprio Devlet Bahçeli e ciò che resta del suo partito nazionalista, l’Mhp. Lupi grigi e ülkücü hanno votato “No”. Emblematico il risultato di Keçiören (Ankara), una delle principali tane dei Lupi grigi: qui, dove alle elezioni del novembre 2015  Ak Parti e Mhp avevano ottenuto oltre il 70%, il Sì non ha superato il 55%. Questa dinamica si è verificata in molte altre zone del paese.

Il Sì ha vinto dove l’Ak Parti è forte e ha perso dove Erdoğan pensava di vincere grazie al sostegno dei nazionalisti. La mappa del voto referendario rivela una Turchia attraversata da linee di faglia marcate.

Erdoğan ha vinto il referendum nei villaggi dell’Anatolia profonda, dove i muhtar (capi villaggio) fanno il bello e il cattivo tempo. Da quando è stato eletto presidente, il Sultano ha speso energie e risorse politiche importanti per ingraziarseli, ricevendoli settimanalmente al palazzo presidenziale. Li ha coccolati e fatti sentire importanti e così, verosimilmente, il 16 aprile loro hanno ricambiato il favore. Poco dopo le 18, il sindaco di Ankara Melih Gökçek – incarnazione del perfetto servitore del potere erdoganiano – ha twittato i risultati di tre piccoli villaggi (meno di 500 elettori in tutto) della provincia di Bingöl: Sì 100%, No 0%. Tradotto: i nostri ragazzi hanno fatto quello che dovevano fare, che nessuno si metta strane idee in testa.

Può Erdoğan pensare di comandare la nazione turca senza il consenso delle grandi città? Il No ha trionfato in tutti i maggiori centri urbani, eccezion fatta per Bursa (e Konya). La sconfitta del Sì a İzmir e Diyarbakır era scontata, ma è stata sorprendente ad Ankara, Antalya e Adana.

Addirittura sconcertante il risultato di Istanbul, la capitale dell’impero di Erdoğan, la perla neo-ottomana, la gemma della “Grande Turchia”. La città dove ha mosso i primi passi, dove tutto è cominciato. Negli ultimi quindici anni il presidente turco ha rivoltato Istanbul come un calzino: il Marmaray, il terzo ponte sul Bosforo e le altre centinaia di progetti infrastrutturali e di ristrutturazione urbana completati o in corso d’opera. Alcuni giorni prima del referendum il sindaco di Istanbul ha annunciato che presto verrà realizzata una statua equestre di Mehmet II in mezzo al Corno d’Oro. Così che il Conquistatore possa rendersi conto che se lui ha fatto passare le navi sulla terra, Erdoğan sta facendo passare i treni sott’acqua.

Queste manie di grandezza si sono però infrante nelle urne referendarie. Istanbul ha votato No. Ha votato No Üsküdar, dove si trova la residenza istanbulita del presidente turco. A Beyoğlu, dove si trova il quartiere nel quale Erdoğan è cresciuto, Kasımpaşa, il Sì ha vinto di 300 voti. I contadini dell’Anatolia sono la vera spina dorsale del paese, ma i giovani (e meno giovani) istruiti delle grandi città sono l’avanguardia, il futuro della nazione. Il loro comportamento elettorale deve far scattare tutti i campanelli d’allarme possibili nei centri di comando del palazzo presidenziale.

Il risultato delle grandi città conferma che anche nell’Ak Parti si è verificata una discreta emorragia di voti a favore del No.

Sotto il profilo geopolitico, il voto di domenica dà alcune indicazioni importanti.

Nel Sud-Est anatolico ha vinto il Sì. Anche nelle province a maggioranza curda dove a trionfare è stato il No, Erdoğan ha conquistato più voti di quanti ne avesse ottenuti il suo partito nelle elezioni del 1° novembre 2015. Questo fenomeno è dovuto soprattutto all’affluenza minore registratasi nelle province dell’Anatolia sud-orientale rispetto al resto del paese. Ciò, a sua volta, significa che il patto segreto Erdoğan-Pkk del quale si era parlato nelle settimane precedenti il 16 aprile è stato verosimilmente stretto. E, almeno in parte, ha funzionato.

Da una prima analisi dei dati, sembra che il presidente turco debba all’astensionismo del Pkk piuttosto che al sostegno di Bahçeli il successo nel referendum. Una dinamica dalla quale potrebbero originare importanti conseguenze, tanto sul piano interno (riapertura del processo di soluzione? Slittamento verso un sistema al contempo presidenziale e federale, come ha proposto pochi giorni prima del voto un consigliere di Erdoğan?) quanto sul fronte siracheno.

Il Pyd e le Ypg fanno quello che Kandil dice di fare. Kandil, apparentemente, ha lanciato un salvagente a Erdoğan proprio quando il presidente turco rischiava di affondare. A metà febbraio avevano fatto molto rumore le parole di uno dei principali consiglieri di Erdoğan, İlnur Çevik, che si era chiesto retoricamente perché mai il Pyd non potrebbe diventare “un altro Barzani”.

Le peculiarità antropologiche e geopolitiche di Erdoğan avevano inoltre trasformato il referendum del 16 aprile in una questione di rilevanza globale. La posta in gioco non era solo lo slittamento dal sistema parlamentare a quello presidenziale.

Erdoğan intendeva flettere i muscoli. Dare uno schiaffo a Germania e Stati Uniti. Non c’è riuscito. Il margine risicato con il quale ha vinto – a rischio di essere persino più esiguo, in considerazione della decisione dell’organo di supervisione delle elezioni in merito ai pacchi di schede non sigillati – lascia pressoché immutato il suo potere negoziale nei confronti di Berlino (nonostante i turchi di Germania abbiano votato in larga parte Sì) e Washington. Peraltro già discretamente basso.

Infine, il 16 luglio Erdoğan era stato incoronato leader dell’intera nazione turca. Nelle settimane successive al golpe il suo consenso sfiorava l’80%. Il presidente era diventato il comandante in capo.

Il 17 aprile è tornato capobanda. Con il 51% preso il giorno prima può, forse, governare il paese. Di sicuro, non comanda la nazione.